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Visualizzazione dei post da 2009

Every year, every Christmas

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I don't know how love could do this to me I've waited and waited for someone I never see But I'm so sentimental and I'm so hopeful you'll be here So here I am every year, every Christmas I've wished for you in my heart and in my head And I got my answer that first moment that we met And, oh yes, I believed you as you told me, as you said You'd be here every year, every Christmas There must be a lesson for me to learn If you don't trust in love, you'll get nothing in return Why should I be lonely? Don't tell me it's fine I have my pride, but I'd rather be with you tonight So much emotion, it's driving me mad But I'll take my chances with these feelings that I have And I'll come back to this same corner where we met And I'll be here every year, every Christmas Mere words can't explain the pain and the fear' Cause I wonder, yes I wonder are you gonna leave me standing here? Today's almost over but I don't wann

Sentire questo silenzio

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CONFESSO Io confesso che non ho fatto la guerra ed ho parlato alla gente come fossi un eroe. Confesso: ho parlato per anni perché qualcuno capisse quello che sento. Stasera ti confesso che sono entrato in un porto ed ho cercato una nave che mi portasse lontano. Non voglio più vedere le cose che mi hanno fatto sentire questo silenzio. E sappi che per me passerai la vita così ad aspettare. Stasera ti confesso: non ci capisco più niente, io voglio solo dormire per non vedere nessuno. E' tardi per pensare all'amore e per andare sui monti a parlare col sole di noi due e per svegliarsi al mattino con la pace nel cuore. (Piero Ciampi)

Il momento in cui non sei

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Mi svegliai che il sole si faceva rosso; e quello fu l’unico chiaro momento della mia vita, il momento più strano di tutti, in cui non seppi chi ero . Mi trovavo lontano da casa, ossessionato e stanco del viaggio, in una misera camera d’albergo che non avevo mai vista, a sentire i sibili di vapore là fuori, e lo scricchiolare di vecchio legno della locanda, e dei passi al piano di sopra, e tutti quei suoni tristi, e guardavo l’alto soffitto pieno di crepe e davvero non seppi chi ero per circa quindici strani secondi. Non avevo paura; ero solo qualcun altro , un estraneo, e tutta la mia vita era una vita stregata, la vita di un fantasma. Mi trovavo a metà strada attraverso l’America, alla linea divisoria fra l’Est della mia giovinezza e l’Ovest del mio futuro, ed è forse per questo che ciò accadde proprio là e in quel momento, in quello strano pomeriggio rosso. Jack Kerouac

A lezione da Niyongabo

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Una sera a presentare e intervistare Venuste Niyongabo al Collegio Universitario Torleone, in via Sant'Isaia. Il bello, con un grande della vita come Venus, è che sa sempre sorprenderti. Quante volte ci siamo trovati, insieme, a raccontare la fantastica avventura della sua esistenza. Le sue gesta di campione, la medaglia d'oro alle Olimpiadi di Atlanta, il rapporto con il suo paese natale, il Burundi, la scelta di venire in Europa, in Italia, prima a Siena e infine a Bologna, per crescere, confrontarsi, capire. Lo abbiamo fatto davanti a scolaresche assorte, a giovani atleti, presentando un mio libro nel quale ho voluto raccontare, tra altre, anche la sua storia, o semplicemente tra comuni amici. Questa volta doveva passare il messaggio positivo: volontà, sacrificio, passione per quello che si fa sono ingredienti che aiutano a raggiungere l'obiettivo. Senza scorciatoie. Venuste ha lasciato il segno, come sempre, usando parole semplici, dirette. Colpendo il cuore e il cerve

Bonatti, un grande italiano

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"…nella polemica con Bonatti e Compagnoni ha sempre guardato dall’alto, con un sorriso. I due mordevano, lui sorrideva. Compagnoni si spartiva la gloria... Gli altri erano giganti della montagna e però bonsai della vita. Lacedelli invece si scrollava di dosso le polemiche come il cane si scrolla l’acqua dal pelo". Mauro Corona ama le frasi a effetto, ama, come dice spesso , "togliere anziché aggiungere, come si fa nella scultura e come si dovrebbe fare nella poesia" . Ricordando Lino Lacedelli , ha detto dell’uomo e dell’alpinista cose molto belle, e giuste. Ma non ha fatto altrettanto su Walter Bonatti . Che non mi pare un "bonsai della vita", ma un uomo di grande rigore morale, di scelte coraggiose che spesso lo hanno isolato, perché il "sentire comune" non sempre sposa gli uomini scomodi. La storia è vecchia, di cinquantacinque anni. Ma è questa, ora lo hanno riconosciuto anche le autirtà della montagna, anche se dopo più di mezzo secolo. Sul

Lacedelli, antieroe nella leggenda

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"Noi dovevamo essere preparati all’ignoto. Nessuno ci aveva preceduti" Lino Lacedelli In questo 2009 infausto per la gente di montagna (il Broad Peak si è preso Cristina Castagna , il Langtang Lirung lo sloveno Tomaz Humar , per non dire dei tanti nomi sconosciuti ai più), se ne vanno anche le antiche leggende. Riccardo Cassin si è spento in una serena vecchiaia, a cent’anni compiuti, Achille Compagnoni ne aveva 94 quando se ne è andato per sempre, nel maggio scorso. Ora lassù lo ha raggiunto Lino Lacedelli , che con lui fu il primo a raggiungere la cima del K2, nel 1954. Un "eroe italiano", non per scelta, col suo carattere schivo e mai incline al protagonismo. Per necessità, semmai, di un’Italia che aveva bisogno di eroi. Che, uscita malconcia da una brutta guerra, ancora cercava grandi gesta e grandi uomini a cui aggrapparsi per uscire dal dolore, dai ricordi. Per lasciarsi tutto alle spalle. La televisione era arrivata il 3 gennaio di quell’anno, Lacedelli e C

Urla nel silenzio

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Appunti sparsi. Sui giornali dilaga la politica dell'apparire, nell'ultimissima (?) versione. Politica degli scandali, dei ricatti, della vita privata rivoltata, delle vite stravolte. Prima, e dopo, quella ormai tradizionale: degli insulti, delle minacce, dell'odio, del tutti contro tutti. Ha ragione il vecchio e "lucido" (lo diverte, sentirsi chiamare così) Carlo Fruttero , quando dice che non esiste più un'etica. Nel gestire la cosa pubblica, come nel gestire le nostre piccole esistenze quotidiane. Ci sarebbero idee condivisibili, ma sono urlate anche quelle. Chi è nel giusto, dilaga: ha ragione, su molte cose, ma va oltre per affermare la sua ragione assoluta. Sono indietro, su questo percorso. Su tante cose ho avuto (ho) il sospetto di avere ragione, ma non ho mai pensato o cercato di imporre le mie certezze. Le discuto, cercando di capire se sono poi così infrangibili. Mi manca molto, la discussione. Mi preoccupa questo manicheismo: bianco o nero, con no

Jack, quarant'anni dopo

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Jack Kerouac Lowell, 12 marzo 1922 - St. Petersburg, 21 ottobre 1969 "Così in America quando il sole va giù e io siedo sul vecchio diroccato molo sul fiume a guardare i lunghi, lunghissimi cieli sopra il New Jersey e avverto tutta quella terra nuda che si svolge in un'unica incredibile enorme massa fino alla Costa Occidentale, e tutta quella strada che va, tutta la gente che sogna nell'immensità di essa, e so che nello Iowa a quell'ora i bambini stanno certo piangendo nella terra in cui lasciano piangere i bambini, e che stanotte usciranno le stelle, e non sapete che Dio è l'Orsa Maggiore?, e la stella della sera deve star tramontando e spargendo il suo fioco scintillio sulla prateria, il che avviene proprio prima dell'arrivo della notte completa che benedice la terra, oscura tutti i fiumi, avvolge i picchi e rimbocca le ultime spiagge, e nessu­no, nessuno sa quel che succederà di nessun altro se non il desolato stillicidio del diventar vecchi, allora penso a D

Gigi, il numero sette

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Era il numero sette . Lo portavo sulla schiena, nel campo di via Cellini, tra la tangenziale ancora nuova e il “grattacielo”, perché l'avevo visto addosso a lui. Perché ne avevo sette, di anni, quando la notizia della sua fine mi piombò addosso dalla tv, e mi scosse perché i bambini credono sempre che gli eroi siano immortali. Era il numero sette , e su quel campetto non l'ho onorato perché il fiato era lungo ma i piedi così così. Lui sì, li aveva i piedi buoni. E l'animo di un poeta. Uno diverso dal gruppo, diverso nel raccontarsi e nell'esprimersi, diverso nel talento e nella creatività. Era il numero sette . Gigi Meroni. Il Best italiano, lo definirono. Ma lui non ebbe mai bisogno di fiumi di alcol per esprimere la sua non convenzionalità. Anzi, da questo punto di vista la sua fu una vita normale. Solo troppo breve. Una vita da bravo ragazzo. Però geniale. Dentro e fuori dal campo. Capelli lunghi, stile beat (e Nicolò Carosio che commentava “tagliali, Gigi, o non ved

Tutti in piedi, questo Bologna è nella storia

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Marco Tarozzi “Il Bologna è una fede”. Suonano perfette, in questo caso, le parole del cuore. Sì, il Bologna è una fede e anche molto altro. È cento anni di vita di un’intera città, della sua gente, un piccolo grande mondo che ha saputo aprirsi al mondo. È una lunga strada fatta di gioie infinite, momenti di gloria, anni bui, drammi che hanno lasciato il segno. È un elenco di sette scudetti, tre fiammate sull'Europa, più di settant'anni vissuti tra le grandi d'Italia, senza mai cadere in basso. E poi una storia faticosa di retrocessioni, rinascite, fallimenti, attimi sempre più rari di felicità. È una lista di nomi da brivido, campioni che, per cento lunghi anni, hanno acceso quel rosso e quel blu, e la fantasia della gente. È un pezzo di questa città, è una parte di noi che ha attraversato i cent’anni più veloci e più vorticosi della storia dell’umanità, restando sempre fedele a sé stessa. È un’icona, un simbolo, un punto fermo della nostra vita. Quei nomi, e un volto die

Podestà, una strada per ripartire

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Marco Tarozzi Vittorio Podestà non ha mai preteso di cambiare il destino, nemmeno quando il destino gli ha cambiato la vita da un giorno all'altro. Ha deciso, molto semplicemente, di affrontarlo dal verso giusto. Reagendo con forza, costruendo nuovi traguardi da raggiungere, nello sport come nella vita. Genovese, laureato in Ingegneria Civile, Vittorio ha appena compiuto trentasei anni. Ne aveva ventinove quando un incidente stradale gli provocò la rottura delle vertebre dorsali, e una lesione al midollo che lo costringe tuttora a vivere sulla sedia a rotelle. “Nessuno è preparato a svolte così drastiche nella propria vita. Non lo ero nemmeno io, ma decisi di non lasciarmi prendere dallo sconforto, di ripartire immediatamente. Prima dell'incidente ero uno sportivo praticante, convinto che l'attività motoria fosse fonte di benessere per corpo e mente. Da quel giorno di marzo del 2002 mi sono dedicato allo sport con sempre maggior determinazione”. Aveva i cromosomi del campi

Mario Lodi. L'insegnamento del Maestro

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"Il paese sbagliato". Ultima edizione, 2007. Libro da leggere e rileggere. Non solo per chi ha in mente di crescere un figlio. Lo lessi per la prima volta quando avevo vent’anni, e a tutt’altro pensavo. C’erano parole libere e forti, capaci di indirizzare. L’ho letto chissà quante altre volte. Quell’edizione (primi anni Ottanta) l’ho consumata, perduta, ritrovata, prestata, definitivamente smarrita. Oggi ho tra le mani un libro nuovo di zecca, e quelle identiche parole e frasi, gli stessi insegnamenti. Pubblicati ormai trentanove anni fa, eppure così attuali. Per descriverlo, uso le parole di chi l’ha scritto, questo splendido libro. Di Mario Lodi. Il maestro da cui tutti vorremmo essere accompagnati nella vita. A cui devo un grazie per quello che penso e credo, e per quello che cerco di essere.     IL PAESE SBAGLIATO Il libro racconta il diario di una esperienza didattica innovatrice, realizzata con i miei alunni nella scuola di Vho di Piadena (Cremona) dal 1964 al 1969. Un

Una bevuta con pa

Oggi mio padre, Giuliano , avrebbe 78 anni. Sono andato a dargli un saluto nel nostro luogo di ritrovo. Una volta a settimana, pranzo veloce prima di andare al lavoro all’Arci Resistenza, a San Lazzaro. Ci piaceva, quel rito. Ritrovarci in mezzo al popolo dei circoli di periferia, tra partite a carte ristorante bocciofila e sala danze, al piano di sopra. Solo che da un anno a questa parte arrivo sempre per primo. Non capitava mai, quando lui c’era. Riuscivo a sentirmi in colpa anche se arrivavo puntuale, perché sapevo che era già lì da almeno dieci minuti. Seduto su quel gradino, vicino al parco dei giochi per bimbi che adesso conosco così bene, perché Matteo mi ha insegnato a frequentarlo. A mio padre e a mia madre penso spesso in questo periodo, in cui ho a che fare con persone che hanno del mio lavoro (che dovrebbe anche essere il loro) un concetto molto provvisorio. Progetti? Non se ne parla. Idee? Ma per favore. Qualità? Risate. Approfondimenti? E a chi interessano? Penso a quel c

Quello che impariamo da Alì

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Alì soffre, Alì fatica a muoversi, ad esprimersi, a sorridere. Un contrappasso crudele, a pensarci. Era il più grande, il più sfacciatamente spavaldo, il più "leggero" dei massimi. Farfalla e ape, certo. Un gigante di muscoli con gambe da ballerino, veloce e imprevedibile. Sicuro di sé, capace di scelte impopolari per tenere accesa la scintilla di un ideale. I vietcong, disse, non lo avevano mai chiamato "negro", e per questo non poteva odiarli. Lo disse in anni difficili, e si trovò contro tutta l’America. La stessa America che oggi ne ha fatto un’icona, una bandiera, che lo ha santificato in vita. Alì ha vinto, alla fine. Le sue idee sono passate, il suo coraggio è stato più forte di tutto, degli errori altrui e dell’opportunismo di chi stava sul suo carro perché lui era il più forte, il più bello, il più grande. Alì non ha paura di questa sua nuova dimensione. Anche se chi lo ha amato, nella notte di Kinshasha, e prima e dopo, fa una fatica dannata a vederlo così

La strada che ha fatto l'America - 1

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ROUTE 66, ISTANTANEE DA UN PAESE IN MOVIMENTO di Marco Tarozzi ANGEL, IL GUARDIANO DELLA STRADA Seligman, Arizona, 2001 Angel il barbiere non si è mai spostato da questa piccola città nel cuore dell’America. Seligman, Arizona. Non ha avuto bisogno di partire per andare a conoscere il suo paese. Perché il suo paese è passato di qui, davanti a casa sua, mille e mille volte. Divorando la strada, sognando California prima per necessità e poi per senso di avventura. La Route 66, strada madre d’America, fu inaugurata nel 1926. Angel, il barbiere di Seligman, ci nacque sopra un anno dopo, nel 1927. Aveva un anno quando gli passarono davanti quei pazzi che avevano accettato la sfida inaugurale, quella di correre a piedi da Los Angeles a Chicago e poi, finita la strada, allungare il viaggio fino al Madison di New York. Si chiamava "C.C. Pyle International Foot Race" , ma la ribattezzarono "Bunion Derby" . Un’immensa carovana di podisti e presunti tecnici al seguito, insieme

Ricordando il professor Pausch

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Un anno (e due giorni) che se ne è andato Randy Pausch . Era nato nel 1960, come me. Ottobre 1960. Magari qualcuno se l’è dimenticato: è quel professore di informatica (insegnava all’Università di Pittsburgh, in Pennsylvania) che più o meno un anno prima di morire, sapendo bene che il momento si stava avvicinando, organizzò una lezione alla Carnegie Mellon University e per circa un’ora parlò ai suoi studenti di futuro, di sogni, di prospettive. Di vita e non di morte. Meglio: del senso della vita. Mi segnai qualcuna delle sue frasi. Le presi dai giornali che parlarono molto di lui in quei giorni. Cose come: “Quando fai qualcosa di sbagliato e nessuno si prende la briga di dirtelo, significa che è meglio cambiare aria. Chi ti critica lo fa perché ti ama e ti ha a cuore” . Di questi tempi, la sento molto mia. E ancora: “ Non perdete mai la capacità di stupirsi tipica dei bambini. È troppo importante. È quella a spingerci ad andare avanti, ad aiutare gli altri”. E la più secca, taglie

I pugni dell'Indipendenza

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“Io sono Jack Johnson. Campione del mondo dei massimi. Sono nero e non mi hanno mai permesso di dimenticarlo. In ogni caso, sono nero! E non permetterò mai che lo dimentichino” 4 luglio 1910. Giorno dell'Indipendenza. Di un'altra indipendenza. Il campione nero aveva già battuto il detentore dei massimi, un piccoletto di nome Tommy Burns. Ma perché l'America lo riconoscesse per quello che era, il Migliore, doveva battere il grande Jim Jeffries. Jim si era ritirato da tempo, e quando era in attività lo aveva sempre evitato. Ma stavolta lo avevano convinto. Borsa stratosferica, promesse di nuova gloria. Ma Jim Jeffries, il gigantesco cowboy, era il passato. Il campione nero era il domani. Si chiamava Jack Johnson . Figlio di schiavi. Nato a Galveston, Texas, nel 1878. Cinque fratelli, vita misera. Ma un talento buono per farlo uscire da quella feccia. Texano, e di colore. Sapevano tutti che era il numero uno. Ma doveva dimostrarlo contro il cowboy. Lo fece, il 4 luglio 1910. I

Ciao pà

Ciao papo. Ormai è un anno e una decina di giorni. Mi manchi e volevo dirtelo. E fai sapere a ma che vale anche per lei, anche se è andata via da due. Una cosa che non vi ho detto: più passa il tempo e più amo quel vostro essere (essere stati) persone per bene, al di là e al di fuori di tutti gli schemi. Buoni, anche troppo. Che a volte penso che un po' di cattiveria in più, se me l'aveste insegnata, non mi avrebbe fatto male. A volte, però. Ma più spesso (quasi sempre) mi dico che così è stato meglio. Non so dove sei, non so dove siete. Se mi vedete, restate nei paraggi. Ogni tanto, lo saprai, vado lassù al parco, e guardo il muretto accanto al parcheggio motorini. Di solito eri lì, seduto ad aspettarmi. Per l'appuntamento col nostro pranzo settimanale, poche parole e molta voglia di riscoprirci, da adulti forse mai cresciuti. Non ti trovo mai. Ci sei?

Boris Vian, mezzo secolo dopo

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MI PIACEREBBE Mi piacerebbe diventare un grande poeta e la gente mi metterebbe serti di lauro sulla testa ma ecco non ho abbastanza passione per i libri e penso troppo a vivere e penso troppo alla gente per essere sempre contento di non scrivere che vento IL DISERTORE Signor Presidente, le scrivo una lettera che leggerà, forse, se avrà tempo. Ho appena ricevuto la cartolina militare per andare alla guerra entro mercoledì sera. Signor Presidente, non voglio farlo non sono sulla terra per uccidere povera gente. Non per farvi arrabbiare, ma devo dirlo ho preso la mia decisone: diserterò. Dacchè sono nato ho visto partire i miei fratelli ho visto morire mio padre e piangere i miei figli mia madre ha tanto sofferto che è nella sua tomba e se ne fotte delle bombe come se ne fotte dei vermi. Quand’ero in prigionia hanno rubato la mia anima hanno rubato la mia donna con tutto il mio passato. Domani uscirò sbattendo la porta in faccia agli anni morti: vivrò sulla via. Mendicherò la vita sulle s

Peter Norman, il terzo uomo

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Nella foto, quella foto storica che ha fatto il giro del mondo e in qualche modo ha cambiato il mondo, è il primo da sinistra. Guarda dritto davanti a sé, come se non si rendesse conto di quello che sta accadendo alle sue spalle. Invece lo sa benissimo. Quell’azione, quella protesta simbolica e di devastante impatto, lui l’ha capita, accettata, condivisa. Il primo a sinistra, l’"altro" sul podio, il terzo uomo di quel momento indimenticabile si chiamava Peter Norman . Australiano, di Melbourne. Velocista di talento. Un campione. Quel giorno del 1968, a Città del Messico, nella finale dei 200 metri era uno dei più forti, ma nessuno pensava fosse più forte di Tommie Smith e John Carlos. Invece, riuscì a infilarsi tra i due. Vinse l’argento olimpico e si preparò a salire sul podio. Ben consapevole di quanto stava per accadere. Di più: partecipe. Smith e Carlos gli avevano spiegato quello che intendevano fare per tenere alta l’attenzione sull’ "Olympic Project for Human Righ

Un bolognese a Stamford Bridge

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Non sappiamo ancora e non possiamo dire dove arriverà Fabio Borini, nè che traccia lascerà sul mondo del calcio. Ma da alcune certezze possiamo partire. Le radici, prima di tutto. Una famiglia che respira sport da una vita, papà Roberto che frequentava i campi dell’atletica nei primi anni ‘80 e non ha ancora abbandonato quelli di calcetto, mamma Cinzia che ancora oggi è una delle più note maratonete bolognesi. Loro hanno acceso in Fabio e nella sorella Gloria, talento emergente dell’atletica, la luce della passione sportiva, ma hanno saputo gestirla con armonia e senza esaltazione. Con loro Marco De Marchi, che ha visto nel ragazzo le qualità del potenziale campione e da tempo lo rappresenta. Con onestà, chiarezza, competenza. Qualità che il Dema ha sempre mostrato, fin dai tempi in cui in campo scendeva lui. Marco Tarozzi Da Sala Bolognese allo Stamford Bridge. Viaggio lungo, se lo affronti a sedici anni, con la prospettiva di fare della passione un mestiere. È una storia di coraggio

Brutta gente

Mettere tante divise servire tanti padroni scappare quasi sempre in posti sbagliati recitare troppe preghiere e vedere che intorno c'è sempre c'è sempre troppa una strana allegria superbia piena di malinconia degli uomini ubriachi in miniera. E poi mercanti vestiti di lino che non potranno mai capire che non sapranno ascoltare il canto delle osterie. È brutta gente che cammina e va sporcando la terra. È brutta gente che cammina e va sporcando la terra. E dappertutto vedere gente che guarda stupita come mosche intontite che non vedon neanche la torta e conoscon solo la fretta ma neanche un giorno di festa E se c'è il vino bevon il vino e se non c'è il vino, pazienza. È brutta gente che cammina e va sporcando la terra. È brutta gente che cammina e va sporcando la terra. E un giorno, un giorno come un altro credono di addormentarsi senza capire che c'è sopra c'è sopra un metro di terra (Enzo Jannacci-Beppe Viola)

Il talento di Lansdale

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Il mio amico Francesco Caremani ha incontrato una di quelle persone che vorrei incontrare da tempo. Il texano Joe Lansdale , il papà corrosivo di Hap e Leonard, i detective più improvvisati, geniali, sfigati, avventurosi e inverosimili che mi sia mai capitato di incontrare nelle pagine di un romanzo. L'autore di "Mucho Mojo", "Il mambo degli Orsi", "Rumble Tumble", soprattutto (per me) di "La sottile linea scura" (qui Hap e Leo non c'entrano, ma lo leggo e rileggo, lo assaggio ormai anche a piccole sorsate). Joe il texano, tra gli americani che amo accanto a John Fante, a Thom Jones, a Cormac McCarthy (non solo "Non è un paese per vecchi", ma anche "Cavali selvaggi", "Città della Pianura"), a Richard Brautigan e ai vecchi maestri che non dimentico. Bel colpo Francesco. E grazie per avermi dato il permesso di riportare l'intervista (da "Non è un paese per giovani" , http://francescocaremani.blog

Miro Ferrari, il "Fitzcarraldo" del Cerro Torre

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Si chiamava Casimiro Ferrari . E’ stato il re del Cerro Torre, oscurato dalla ritrosia, dalla modestia innata e dalla figura imponente di Cesare Maestri , coi suoi ricordi di quella salita del 1959 in cui morì il grande Toni Egger , una conquista che ancora alimenta dubbi. Perché il Torre non si lascia conquistare facilmente oggi, e mezzo secolo fa, con le attrezzature di allora, era praticamente impossibile. Anche per un talento come Egger, anche per il numero uno delle Dolomiti, Maestri. Così lascia intendere Reinhold Messner , nel libro "Grido di Pietra" , pur partendo da una giovanile infatuazione per Maestri che tuttora, pur confutando la sua verità "assoluta", resta profondo rispetto. Messner rivaluta Ferrari, che nel ’74 fu, assicura, il primo vero conquistatore del Cerro Torre, con la spedizione dei Ragni di Lecco. Di Cesarino avevo sentito parlare, ne avevo letto. Ma scavando nella sua storia unica, spigolosa, affascinante di uomo innamorato della Patagoni

Maggio (Primo di)

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Il lavoro? Ancora non lo so. Mi hanno preso? Non mi hanno detto niente. E allora? Ti ho detto, non so niente. E allora? Allora non lo so, non lo so, non lo so, non lo so, non lo so, non lo so. Ti ho portato qualche cosa che ti piacerà, ecco il giornale e un pacchetto di sigarette e dietro a me c'è una sorpresa, un ospite, un nuovo inquilino: c'è la mia ombra che chiede asilo perchè purtroppo anche stavolta devo dirti che è andata male. Ma non è successo niente, non è successo niente, fai finta di niente, non è successo niente, accendi una sigaretta, chiudi la finestra e spogliati... Io ti porto a nuotare, ti faccio vedere la schiuma bianca del mare, niente suoni, io e te soli io e te soli, io e te soli. Ricordi quel mattino? Quando sono venuto a prenderti per andare a sposarci e quando siamo entrati in quell'ufficio... tu mi hai detto "ma dove mi hai portato?", Ho detto "eh... ti ho portato qui per sposarti" e tu ridevi, poi a poco a poco sei diventata s

Terra promessa, terre promesse

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Corriamo, accorriamo, soccorriamo. E poi dimentichiamo in fretta. Forse è normale, è la vita: rimuovere, a volte anche per esorcizzare. Lasciando chi ha perso tutto in balia di sé stesso, del destino. E delle promesse non mantenute. Succederà anche questa volta, anche con l'Abruzzo? Magari no, ma di sicuro lì è già successo. Dopo il 13 gennaio 1915, quando la terra tremò come mai prima, ne dopo, in Italia: XI grado della scala Mercalli, 29mila vittime su una popolazione, nelle zone colpite, di circa 120mila. Avezzano letteralmente rasa al suolo, con 10.700 scomparsi. Paesi come Sora, Castelliri, Isola Liri, danneggiati irreparabilmente. Il sospetto, anche allora, che l'uomo avesse avuto una bella parte di colpa, svuotando il lago Fucino per sviluppare l'economia locale. L'inadeguatezza dei soccorsi, in un'Italia che già annusava un clima di guerra (ci sarebbe entrata ufficialmente quattro mesi più tardi). Don Orione che si occupava degli orfani. E le promesse. Tante