Miro Ferrari, il "Fitzcarraldo" del Cerro Torre
Si chiamava Casimiro Ferrari. E’ stato il re del Cerro Torre, oscurato dalla ritrosia, dalla modestia innata e dalla figura imponente di Cesare Maestri, coi suoi ricordi di quella salita del 1959 in cui morì il grande Toni Egger, una conquista che ancora alimenta dubbi. Perché il Torre non si lascia conquistare facilmente oggi, e mezzo secolo fa, con le attrezzature di allora, era praticamente impossibile. Anche per un talento come Egger, anche per il numero uno delle Dolomiti, Maestri.
Così lascia intendere Reinhold Messner, nel libro "Grido di Pietra", pur partendo da una giovanile infatuazione per Maestri che tuttora, pur confutando la sua verità "assoluta", resta profondo rispetto. Messner rivaluta Ferrari, che nel ’74 fu, assicura, il primo vero conquistatore del Cerro Torre, con la spedizione dei Ragni di Lecco.
Di Cesarino avevo sentito parlare, ne avevo letto. Ma scavando nella sua storia unica, spigolosa, affascinante di uomo innamorato della Patagonia, ho recuperato quella che forse è l’ultima, o una delle ultime, interviste. Del 2000. Cesarino Ferrari se ne è andato nel 2006, consumato da un male che, dicevano i medici, avrebbe dovuto annientarlo molti anni prima. Ma lui seppe sorprendere anche loro, andando oltre i limiti della stessa vita.
Un italiano il guardiano delle Ande
Così lascia intendere Reinhold Messner, nel libro "Grido di Pietra", pur partendo da una giovanile infatuazione per Maestri che tuttora, pur confutando la sua verità "assoluta", resta profondo rispetto. Messner rivaluta Ferrari, che nel ’74 fu, assicura, il primo vero conquistatore del Cerro Torre, con la spedizione dei Ragni di Lecco.
Di Cesarino avevo sentito parlare, ne avevo letto. Ma scavando nella sua storia unica, spigolosa, affascinante di uomo innamorato della Patagonia, ho recuperato quella che forse è l’ultima, o una delle ultime, interviste. Del 2000. Cesarino Ferrari se ne è andato nel 2006, consumato da un male che, dicevano i medici, avrebbe dovuto annientarlo molti anni prima. Ma lui seppe sorprendere anche loro, andando oltre i limiti della stessa vita.
Un italiano il guardiano delle Ande
Ferrari, l' alpinista lecchese
ha mollato tutto per vivere
da "eremita" in Patagonia
di Costantino Muscau
PROVINCIA DI SANTA CRUZ, PATAGONIA (Argentina) – "Il lavoro mi dava da vivere; l' alpinismo e la Patagonia mi facevano vivere. Per questo, quando mi è stato possibile, ho venduto la mia fabbrichetta di fil di ferro a Lecco, ho lasciato a Ballabio i vecchi genitori, i tre fratelli, i due figli, ormai grandi, e me ne sono venuto qui in Patagonia, per il resto dei miei giorni. Anni fa mia moglie mi domandò: Ma tu vuoi più bene alla tua famiglia o alle montagne? A tutte e due allo stesso modo, risposi. Mi sbagliavo: alla fine hanno vinto le vette. Tanto che mia moglie è a Lecco, dove ha chiesto il divorzio, e io sono qui, da cinque anni. Con qualche rimorso, ma senza rimpianti".
Dalle Prealpi orobiche alle Ande australi per realizzare un sogno dell' infanzia: trovare se stesso in spazi senza limiti e terre senza padroni. Ha trovato spazi e terre, forse anche la pace che cercava: vive solitario in un' estancia (fattoria) di 26 mila ettari, fra 600 pecore, decine di mucche, cavalli, guanachi e galline immersa in una provincia grande due terzi l' Italia, con una densità di popolazione tra le più basse della terra (0,7 abitanti per km quadrato).E’ una storia d' amore avventurosa, tenera e lacerante quella di Casimiro Ferrari. Di un amore folle, da Fitzcarraldo della verticalità, nutrito per le cime più tempestose del mondo e realizzato dopo 35 anni di un "adulterio" vissuto palesemente. Casimiro Ferrari, 60 anni il 18 giugno, cavaliere della Repubblica dal 1977 per meriti alpinistici, "Miro" per gli amici, "El patagonico", o "El condor italiano" per gli argentini, è lo scalatore leader dell' alpinismo lecchese degli anni ' 70-' 80 e quello che più di ogni altro ha segnato la storia dell' "andinismo patagonico". A buon diritto.
"Su quelle pareti ho bivaccato per 182 giorni e 182 notti. Come dimenticare i 17 giorni che ho impiegato per vincere la direttissima di 1450 metri del Fitz Roy?", mormora Casimiro. Gli occhi dello scalatore fissano l' arco andino la cui maestosità ammira ogni mattina dalla sua estancia "Punta del lago", così chiamata perché sorge nelle vicinanze del bacino glaciale Viedma. Il suo indice punta una per una quelle poderose strutture granitiche al confine tra Argentina e Cile, che battute da venti sui 200 km orari, Casimiro ha conquistato con scalate entrate nella leggenda: dal Cerro Torre (1974) al Mermot (' 94).
E' stato ed è un mito vivente, Miro, ma mai si è inebriato di gloria a causa del carattere schivo e chiuso. Solo oggi, da poco in pensione per problemi di salute, a 15 mila chilometri dall' Italia, a 3000 da Buenos Aires, apre la cassaforte di sentimenti e spiega le ragioni del cuore: "Sì, lo so, la massa non mi conosce, ma l' importante è che l' alpinismo mondiale conosca le mie imprese, non me. Venni da queste parti la prima volta con Carlo Mauri nel 1965. Fu il classico colpo di fulmine. Sono eternamente grato al povero Mauri (morto nel 1982, ndr). Per riconoscenza, sulle rive del lago Viedma, nel punto in cui si fermò la prima volta prima di "assaltare le Ande", ho aperto un rifugio a suo nome".
Quel rifugio, in questi giorni, mentre l' estate australe volge al termine, è meta di scalatori, amanti del trekking, saccopelisti, pescatori che hanno saputo di Casimiro grazie a un incredibile passaparola diffusosi con il vento che spazza la Patagonia. Casimiro, infatti, fa dell' agriturismo, più per amore che per denaro (spesso si vergogna di chiedere i soldi dell' ospitalità concessa, fra le proteste della sua collaboratrice argentina, la signora Ana Rojo): "E' un modo per far amare questi posti ad amici, vengono in tanti da Lecco a darmi una mano, e a non amici. La Patagonia e le sue montagne rappresentano tutto per me. Qui ho scoperto il mio valore. Una volta, anni fa, andai a Cervia, sulla spiaggia affollata. Provai orrore e sgomento, mi sentii solo "dentro". Invece, nelle pareti di granito e di ghiaccio raggiungevo la libertà fisica e interiore. Dino Buzzati mi rimproverò di pensare solo a me stesso. Ho conosciuto Buzzati perché era amico di Carlo Mauri a cui una volta dette una mano, in incognito, a scrivere sulla Domenica del Corriere il racconto di una scalata fallita. Con il ricavato di quell' articolo Mauri mi regalò la Fiat 500. "Devi imparare - mi riprese Buzzati, che spesso veniva con noi sulla Grigna - a trasmettere qualcosa agli altri e non a fare solo ciò che ti piace. Vedi: le mie passioni vere sono le escursioni in montagna e la pittura. E invece mi tocca di fare il giornalista...". "Ma io non avevo gli strumenti per farlo - conclude Miro - ho solo la V elementare e non ho letto i libri di Bruce Chatwin o di Sepulveda che vedo in mano ai turisti. Io la Patagonia la leggo direttamente, a modo mio, come fanno gli scrittori. Da quelle vette dove sono rimasto appeso come un pipistrello per 182 giorni e 182 notti, i miei occhi hanno visto cose che il mio cuore non può dimenticare".
Dalle Prealpi orobiche alle Ande australi per realizzare un sogno dell' infanzia: trovare se stesso in spazi senza limiti e terre senza padroni. Ha trovato spazi e terre, forse anche la pace che cercava: vive solitario in un' estancia (fattoria) di 26 mila ettari, fra 600 pecore, decine di mucche, cavalli, guanachi e galline immersa in una provincia grande due terzi l' Italia, con una densità di popolazione tra le più basse della terra (0,7 abitanti per km quadrato).E’ una storia d' amore avventurosa, tenera e lacerante quella di Casimiro Ferrari. Di un amore folle, da Fitzcarraldo della verticalità, nutrito per le cime più tempestose del mondo e realizzato dopo 35 anni di un "adulterio" vissuto palesemente. Casimiro Ferrari, 60 anni il 18 giugno, cavaliere della Repubblica dal 1977 per meriti alpinistici, "Miro" per gli amici, "El patagonico", o "El condor italiano" per gli argentini, è lo scalatore leader dell' alpinismo lecchese degli anni ' 70-' 80 e quello che più di ogni altro ha segnato la storia dell' "andinismo patagonico". A buon diritto.
"Su quelle pareti ho bivaccato per 182 giorni e 182 notti. Come dimenticare i 17 giorni che ho impiegato per vincere la direttissima di 1450 metri del Fitz Roy?", mormora Casimiro. Gli occhi dello scalatore fissano l' arco andino la cui maestosità ammira ogni mattina dalla sua estancia "Punta del lago", così chiamata perché sorge nelle vicinanze del bacino glaciale Viedma. Il suo indice punta una per una quelle poderose strutture granitiche al confine tra Argentina e Cile, che battute da venti sui 200 km orari, Casimiro ha conquistato con scalate entrate nella leggenda: dal Cerro Torre (1974) al Mermot (' 94).
E' stato ed è un mito vivente, Miro, ma mai si è inebriato di gloria a causa del carattere schivo e chiuso. Solo oggi, da poco in pensione per problemi di salute, a 15 mila chilometri dall' Italia, a 3000 da Buenos Aires, apre la cassaforte di sentimenti e spiega le ragioni del cuore: "Sì, lo so, la massa non mi conosce, ma l' importante è che l' alpinismo mondiale conosca le mie imprese, non me. Venni da queste parti la prima volta con Carlo Mauri nel 1965. Fu il classico colpo di fulmine. Sono eternamente grato al povero Mauri (morto nel 1982, ndr). Per riconoscenza, sulle rive del lago Viedma, nel punto in cui si fermò la prima volta prima di "assaltare le Ande", ho aperto un rifugio a suo nome".
Quel rifugio, in questi giorni, mentre l' estate australe volge al termine, è meta di scalatori, amanti del trekking, saccopelisti, pescatori che hanno saputo di Casimiro grazie a un incredibile passaparola diffusosi con il vento che spazza la Patagonia. Casimiro, infatti, fa dell' agriturismo, più per amore che per denaro (spesso si vergogna di chiedere i soldi dell' ospitalità concessa, fra le proteste della sua collaboratrice argentina, la signora Ana Rojo): "E' un modo per far amare questi posti ad amici, vengono in tanti da Lecco a darmi una mano, e a non amici. La Patagonia e le sue montagne rappresentano tutto per me. Qui ho scoperto il mio valore. Una volta, anni fa, andai a Cervia, sulla spiaggia affollata. Provai orrore e sgomento, mi sentii solo "dentro". Invece, nelle pareti di granito e di ghiaccio raggiungevo la libertà fisica e interiore. Dino Buzzati mi rimproverò di pensare solo a me stesso. Ho conosciuto Buzzati perché era amico di Carlo Mauri a cui una volta dette una mano, in incognito, a scrivere sulla Domenica del Corriere il racconto di una scalata fallita. Con il ricavato di quell' articolo Mauri mi regalò la Fiat 500. "Devi imparare - mi riprese Buzzati, che spesso veniva con noi sulla Grigna - a trasmettere qualcosa agli altri e non a fare solo ciò che ti piace. Vedi: le mie passioni vere sono le escursioni in montagna e la pittura. E invece mi tocca di fare il giornalista...". "Ma io non avevo gli strumenti per farlo - conclude Miro - ho solo la V elementare e non ho letto i libri di Bruce Chatwin o di Sepulveda che vedo in mano ai turisti. Io la Patagonia la leggo direttamente, a modo mio, come fanno gli scrittori. Da quelle vette dove sono rimasto appeso come un pipistrello per 182 giorni e 182 notti, i miei occhi hanno visto cose che il mio cuore non può dimenticare".
IL PERSONAGGIO Da operaio a scalatore nei "Ragni di Lecco" Casimiro Ferrari è nato a Ballabio, in provincia di Como, il 18 giugno 1940. Ha cominciato a lavorare come operaio, ma ben presto si è dedicato anima e corpo all' alpinismo. A 18 anni è entrato a far parte della gloriosa squadra di alpinisti "Ragni di Lecco", a 21 nel gruppo accademico del Cai. Dal ' 74 Casimiro ha operato quasi sempre in Patagonia. Nel ' 72 Cesare Maestri, dopo diversi e drammatici tentativi, era riuscito a sfiorare la vetta del Cerro Torre, ma la sua impresa è contestata ancora oggi. Nel ' 74 l' ascensione è stata compiuta da Ferrari, con i Ragni di Lecco, e Ferrari è considerato il vero conquistatore della montagna andina.
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