Quello che impariamo da Alì
Alì soffre, Alì fatica a muoversi, ad esprimersi, a sorridere. Un contrappasso crudele, a pensarci. Era il più grande, il più sfacciatamente spavaldo, il più "leggero" dei massimi. Farfalla e ape, certo. Un gigante di muscoli con gambe da ballerino, veloce e imprevedibile. Sicuro di sé, capace di scelte impopolari per tenere accesa la scintilla di un ideale. I vietcong, disse, non lo avevano mai chiamato "negro", e per questo non poteva odiarli. Lo disse in anni difficili, e si trovò contro tutta l’America. La stessa America che oggi ne ha fatto un’icona, una bandiera, che lo ha santificato in vita. Alì ha vinto, alla fine. Le sue idee sono passate, il suo coraggio è stato più forte di tutto, degli errori altrui e dell’opportunismo di chi stava sul suo carro perché lui era il più forte, il più bello, il più grande.
Alì non ha paura di questa sua nuova dimensione. Anche se chi lo ha amato, nella notte di Kinshasha, e prima e dopo, fa una fatica dannata a vederlo così, assalito dal Parkinson che non gli dà tregua, gli toglie lucidità, gli rallenta irrimediabilmente quelle parole che uscivano a raffica dalla sua "bocca di Louisville", e da una mente sempre accesa.
Alì si fa vedere in pubblico, in questa sua nuova e imprigionante realtà. Senza nascondersi. Lo ha fatto lo scorso 7 agosto, allo Yankee Stadium rimesso a nuovo, davanti a cinquantamila persone. Come quando uscì sorprendendo il mondo per accendere la fiaccola alle Olimpiadi di Atlanta, nel 1996. Adesso è anche peggio, perché quella malattia è bastarda, toglie poco a poco, e non si arresta mai.
Alì mette malinconia, a chi lo ripensa danzante in mezzo a un ring. Ma non tristezza. Quel po’ che riesce a dire, a rare parole o a minimi gesti, è la punta dell’iceberg di valori e serenità che si porta dentro. Sono un uomo fortunato, dice. Noi non possiamo pensare che sia una persona infelice, anche se assistiamo impotenti al suo declino fisico. Perché lui non si compiange, non guarda indietro, cerca il meglio della vita oggi come ieri, oggi più di ieri.
"Ho odiato ogni minuto di allenamento. Ma mi dicevo: non rinunciare. Soffri adesso, e vivrai il resto della vita da campione".
Così è stato, così è ancora. Muhammad Alì è il campione. Che ha acceso gli entusiasmi della nostra gioventù. Che ancora ci insegna la vita.
Alì non ha paura di questa sua nuova dimensione. Anche se chi lo ha amato, nella notte di Kinshasha, e prima e dopo, fa una fatica dannata a vederlo così, assalito dal Parkinson che non gli dà tregua, gli toglie lucidità, gli rallenta irrimediabilmente quelle parole che uscivano a raffica dalla sua "bocca di Louisville", e da una mente sempre accesa.
Alì si fa vedere in pubblico, in questa sua nuova e imprigionante realtà. Senza nascondersi. Lo ha fatto lo scorso 7 agosto, allo Yankee Stadium rimesso a nuovo, davanti a cinquantamila persone. Come quando uscì sorprendendo il mondo per accendere la fiaccola alle Olimpiadi di Atlanta, nel 1996. Adesso è anche peggio, perché quella malattia è bastarda, toglie poco a poco, e non si arresta mai.
Alì mette malinconia, a chi lo ripensa danzante in mezzo a un ring. Ma non tristezza. Quel po’ che riesce a dire, a rare parole o a minimi gesti, è la punta dell’iceberg di valori e serenità che si porta dentro. Sono un uomo fortunato, dice. Noi non possiamo pensare che sia una persona infelice, anche se assistiamo impotenti al suo declino fisico. Perché lui non si compiange, non guarda indietro, cerca il meglio della vita oggi come ieri, oggi più di ieri.
"Ho odiato ogni minuto di allenamento. Ma mi dicevo: non rinunciare. Soffri adesso, e vivrai il resto della vita da campione".
Così è stato, così è ancora. Muhammad Alì è il campione. Che ha acceso gli entusiasmi della nostra gioventù. Che ancora ci insegna la vita.
Commenti
In questa desolazione ferragostana meno male che c'è il tuo blog.
FabP
Marco