L'ultima parola di Ti Jean




Aspettando Matteo (coming Son, coming soon...) rispolvero in libreria storie già percorse. Tra le mani mi ricapita un piccolo, preziosissimo libro che ancora mi dà emozioni. "L'ultima parola - In viaggio, nel jazz", Jack Kerouac. I temi più cari a Ti-Jean dentro scritti in gran parte nuovi (all'epoca della pubblicazione, fine 2003) per i lettori italiani.
L'emozione deriva dal fatto di aver incrociato, per ricavarne un servizio sul giornale per cui lavoravo e ancora (...) lavoro, la strada del traduttore di questi scritti. Non un traduttore qualunque, ammesso che esistano traduttori qualunque. In questo caso, uno che certamente ha saputo entrare nella poesia in prosa di JK, perché lui stesso animato dalla fiamma della poesia.
E' in quell'occasione, ormai quattro anni fa, che ho avuto la fortuna di conoscere Alberto Masala. In archivio ho ritrovato quell'intervista, e ancora oggi mi pare fresca di novità. Chi ama Kerouac, quest'opera deve cercarla e trovarla, se non l'ha già fatto. E' innovativa, rispettando il linguaggio. Ed è imperdibile.
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Marco Tarozzi

Alberto Masala ha tradotto/riscritto Jack Kerouac con l'incanto e la passione del compagno di viaggio. Non lo ha mai conosciuto di persona, ma lo frequenta da sempre: ha accolto nella sua casa bolognese Gregory Corso, fratello in poesia, ha recitato versi accanto a Ferlinghetti, ha raccolto più di 400 fogli sparsi, fotocopie di articoli e dattiloscritti del grande "viaggiatore solitario" della vita, quasi tutto materiale inedito in Italia consegnatogli da Simon Pettet. Insomma, gli è fratello lontano nel tempo in quella che Dylan Thomas chiamava la "difficile arte o mestiere" del vivere da poeta e da artista. E ha avuto la fortuna di trovare una giovane casa editrice, Il Maestrale, che ha saputo sintonizzarsi sulle sue corde, quelle della passione, per dare vita a "L'ultima parola. In viaggio. Nel Jazz" che ci consegna un Kerouac nuovo e sorprendente anche per chi lo conosce e lo ama. Quello dei primi testi sul jazz scritti sul giornale del college, l'Horace Mann Record, quello della rubrica "The Last World" su Escapade, quello di grandi (Tangeri, che ha segnato la storia della Beat Generation) e piccoli viaggi (la ricerca delle radici tra gli irochesi, la Florida accanto al fotografo Robert Frank) fin qui sconosciuti o misconosciuti ai lettori italiani.
Di suo, Masala ci ha messo la sensibilità del "cantore" che gli ha permesso di superare anche i più ardui scogli linguistici. Così facendo, ha reso al vecchio maestro, spesso pubblicato o ripubblicato senza troppa attenzione, in base a disinvolte strategie di mercato, un favore da amico vero e disinteressato
Alberto Masala, da dove nasce il Kerouac ritrovato?
"Da questi quattrocento fogli sparsi che da oltre vent'anni girano per la mia casa. Nasce per amore, ovviamente. Vedere come veniva trattato Kerouac, così commercialmente, soprattutto negli ultimi tempi, mi ha mosso a pubblicare lavorando su questi originali in modo filologico. Anche se la traduzione è filtrata dal linguaggio che ne deduco, reso al lettore italiano. Non so se l'operazione è riuscita, ma il gioco della traduzione sta in questo: rispettare letteralmente ciò che si traduce e renderlo riconoscibile nella cultura di chi legge. Senza fingermi americano".
Il traduttore, se è poeta lui stesso, lascia un'impronta sul lavoro.
"Di mio c'è tutto, perché uno che traduce riscrive. Ma allo stesso tempo non c'è nulla, perché tutto è trasmesso con amore e rispetto. La scommessa sta nel riportare la scrittura di quel periodo, di quel determinato autore, nella sensibilità del lettore di oggi. Quando traduco credo di interpretare soprattutto la cultura di un autore, cercando di non tradire le parole".
Qual è il segreto di una buona traduzione, quando c'è di mezzo un autore difficile da riscrivere come Kerouac?
"Il ritmo, il lavoro sul ritmo. Quello non te l'insegna nessuna scuola. Io sono sardo, la mia terra ha quasi trecento metriche per cantare poesia e io sono stato allevato nell'interpretazione del canto. Per questo mi ritengo un "contemporaneo con radici": mentre riesco a cavalcare nelle praterie del Beat, o a rapportarmi con la cultura d'avanguardia, allo stesso tempo scrivo per i Tenores, nelle gabbie convenzionali, con strutture metriche. Questo m'aiuta. Del traduttore ho ciò che servirebbe, per pratica e per resistenza: ritmo, gusto enigmistico dell'interpretazione. E in più scrivo. Ma il concetto che mi muove è semplice: di una lingua prima impari il canto, poi versi la parola".
E poi c'è quella questione dell'atto di giustizia dovuto a Ti-Jean.
"Questo rientra nella sfera dell'amore, della sofferenza a veder violentato o non rispettato uno scritto. Non nella sua forma, questo non mi destabilizza. Quello che non mi va è che vengano prese delle mezze pagine, incollate ad altre mezze pagine di altri periodi, che non c'entrano con le prime, o che vengano saltati pezzi perché non si riesce a capire una frase, lo slang. Fin qui a impedirmi questo lavoro era stato un vecchio incontro con Jan, la figlia di Kerouac, ad Amsterdam. Lei molto amaramente mi disse "fare Kerouac costa". Comprensibile, d'altra parte: non mi conosceva, stava sulla difensiva. Jan è morta in modo amaro, è morta infelice. Io questi fogli li ho tenuti per anni anche dopo, per me stesso. Il senso del business non mi appartiene. Ci voleva un editore come il Maestrale per togliermi problemi ed eventuali sensi di colpa. E' arrivato, e ho tolto quelle carte dagli scaffali".
Lei è fuori dalle regole del mercato, diceva. Perché, o per chi, ha affrontato questa impresa?
"Diciamo che sto dalla parte di Kerouac. Sostengo che la poesia, che la scrittura è un condominio. Io sento di farne parte, di abitarci, magari in un sottoscala. L'unica cosa che pretendo da me stesso è non dovermi vergognare quando incontro per le scale quelli dei piani alti. Di poter guardare in faccia gente come Artaud, come Kerouac appunto".
"L'ultima parola" è un titolo definitivo, senza appello. Dopo di me il diluvio, diceva il vecchio Jack.
"Era il titolo della rubrica che Kerouac teneva su Escapade. Una scelta dell'editor, che condivido pienamente. E credo di poter dire che chiarisce perfettamente il senso di "resa giustizia" a un autore deturpato da traduzioni facili. Perché è insuperabile dal punto di vista tecnico, nel senso che è esatta. Inconfutabile".
Cosa c'è di nuovo in questo Kerouac?
"Intanto, questa è una scelta precisa. Viaggio e jazz sono due argomenti scelti dall'editore tra i tanti dei famosi "quattrocento fogli". Avremmo potuto scegliere i primi esperimenti di hajku, o i colloqui con Saroyan. Siamo partiti da qui, l'idea è quella di andare avanti in futuro. Qui c'è il primo Kerouac, quello del college, appassionato di jazz, interamente inedito. Ci sono appunti sparsi del suo cammino, ci sono gli esperimenti sul linguaggio. C'è soprattutto il paradigma di Kerouac nell'interpretazione del mondo, che non era retinico ma acustico. Kerouac non viaggia sulle visioni, pur sapendo vedere, ma sui ritmi della scrittura. Scrive di orecchio, non di occhio. In questo è molto majakowskiano. E ha l'animo del poeta, che con l'orecchio "vede" i ritmi del mondo".

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