Kammerlander, il mito tranquillo

Ultimamente, mi è capitato per mestiere (le poche cose belle rimaste del mestiere) di avere a che fare con uomini un po' fuori del comune. Parliamo di sport, naturale, ma lungo il cammino si finisce sempre con lo spostare l'angolo visuale. Meglio: allargare.
E' successo con Hans Kammerlander, incontrato per un guizzo (ancora, raramente, mi succede) a Campo Tures. In vacanza, mi è sembrato potesse uscirne un buon pezzo sul suo rapporto con la corsa, da proporre a Runner's World. Contatto, appuntamento, intervista. Andata. Ma è rimasto qualcosa dentro, come succede quando ti trovi di fronte un tipo tranquillo che con semplicità ti racconta la sua filosofia di vita. Uno che ha scalato tredici dei quattordici Ottomila della terra, rinunciando all'ultimo per una questione etica. La corsa è il pretesto. Ma si parla anche di paura, di fatica della conquista, di senso della perdita. Di cime himalaiane, alzando gli occhi sulle cime incantate che avvolgono la Val di Tures e la Valle Aurina.





Marco Tarozzi

Campo Tures è un luogo che racconta storie. Solidamente piantata in val di Tures, cancello virtuale che si apre sulla splendida valle Aurina, ha visto passare la storia dalle sue strade. I re di Sassonia ci venivano a riposare e a camminare, Napoleone ci passò con altri diavoli per la testa. Ha due angeli custodi che riempiono d'orgoglio i suoi cinquemila abitanti: il castello di Ritter e, molto più su, le guglie maestose dell'Hochgall, che punta dritto al cielo per 3435 metri. Al centro del paese, una piazza porta il nome di un uomo che ha sempre guardato verso l'alto. Prima alle sue montagne, poi a quelle sparse per il mondo. Fino alle più alte di tutte. Gli Ottomila. Sono quattordici in tutto, e lui ne ha conquistati tredici, fermandosi quando ha sentito che ci sono valori più profondi di un record. Quest'uomo si chiama Hans Kammerlander, è uno tra i più grandi al mondo e nella storia. Guarda con un sorriso divertito, ma anche con orgoglio, il suo nome scritto in grande all'angolo di questa piazza. In questo posto in cui torna sempre, dopo ogni viaggio. Figlio di questa terra.
“Sono nato e vivo ad Acereto. Meno di sette chilometri da qui, anche se si sale in fretta da quota 860 a 1400 metri. Papà aveva un vecchio maso e mi ha insegnato il valore della terra, e come coltivarla per viverci. Questo è l'approdo in cui tornare dopo ogni avventura, e su queste cime è nata la passione che mi ha portato su quelle più lontane. Questo, per dire, è un anno diverso dagli altri. Normalmente organizzo i miei viaggi tra aprile e maggio, e mi perdo l'esplosione della primavera in queste valli. Per la prima volta in quasi vent'anni sono rimasto qui, e le ho viste più verdi che mai. Come non le ricordavo”.
All'ultimo piano dell'ufficio del turismo, in un grande salone che è anche un piccolo museo delle sue imprese, Hans Kammerlander ricorda senza enfasi conquiste dal valore inestimabile, prova a dare un'idea di cosa significhi restare ore, giorni oltre il limite degli ottomila metri senza far ricorso all'ossigeno (mai una volta, ed è motivo d'orgoglio giustificato). E parla di corsa, naturalmente. Sorride, pensando che di questo vogliamo chiedergli. E' un'ottica diversa dalle solite. Ma non meno importante, assicura.
“Ho sempre considerato la corsa un elemento fondamentale della preparazione per le mie imprese in montagna. Ma quando la pratico provo anche piacere puro, ed emozioni molto simili a quelle che mi regalano le avventure ad alta quota. Amo correre in solitudine, e mai su terreni piani. Cerco, anche in questo caso, di salire verso l'alto. Mi limito a un paio di uscite settimanali, ma decisamente intense. Quando esco, spesso dimentico il cronometro, affronto dislivelli anche di sette-ottocento metri e resto fuori a lungo. Poco lontano da casa infilo un sentiero, entro nel bosco e mi sento subito meglio”.
Un runner della solitudine. Per abituarsi a quello che lo aspetta in Himalaya, naturalmente. Ma anche per scelta precisa. Hans ama davvero il mondo che lo avvolge, prova una curiosità bambina nello scoprirlo. Si sente attratto dagli angoli più isolati, quelli da raggiungere in silenzio, ascoltando soltanto i propri pensieri e il proprio respiro.
“Amo certe uscite invernali, quando la neve copre i sentieri e correrci sopra è un'impresa, un po' come farlo sulla sabbia in riva al mare. Il contatto con la natura è un aspetto importante dei miei allenamenti. Per me correre non è solo allenamento per il corpo, ma anche per la mente. E nella natura puoi trovare un sacco di energia”.
Per questo non ha mai pensato di chiudersi tra quattro mura per dedicarsi al running, nemmeno durante i periodi più intensi della preparazione. Estate o inverno, meglio uscire di casa e infilarsi sui sentieri intorno ad Acereto.
“Ho un amico maratoneta, molto forte, che nei mesi più freddi si allena praticamente solo in palestra, sul tapis roulant. Io non ci riuscirei mai. Non troverei le motivazioni che ho correndo a contatto con le montagne di casa mia, intorno ad Acereto. Allenarsi è comunque un lavoro, per uno come me. Ma quando sono fuori, immerso negli elementi naturali, è un'altra cosa. E' allegrìa, divertimento. Mi succede quando, nel mio mestiere di guida alpina, porto i clienti sulle cime intorno alla mia valle, o nelle Dolomiti. Così come quando vado a correre. Niente è ripetitivo o stressante, e anche la fatica è più lieve se stai facendo qualcosa che ti dà soddisfazione”.
Non ha bisogno di iscrizioni o pettorali, per stabilire i suoi record. Sono tutti scritti nelle pagine storiche dell'alpinismo. Incancellabili.
“Ho stabilito il record della salita sull'Everest, in sedici ore e quaranta minuti. E' alpinismo, non running, ma credo si possa considerare un bel viaggiare. Non ero in gara con nessuno, pensavo solo a coniugare velocità e sicurezza. Sono salito con uno zaino leggerissimo, cinque chili in tutto, compresi un litro di the e gli sci con cui poi ho affrontato la discesa, anche in questo caso stabilendo un record. Il mio concetto era semplice: salire leggerissimo e veloce, restare poco tempo in quota. Anche in questo la confidenza con la corsa mi ha aiutato tantissimo”.
Già, guai a dimenticare. Hans Kammerlander eccelle anche come sciatore. Estremo, naturalmente. Come definire uno che scende dalla cima delle montagne più alte del mondo con gli sci ai piedi, dopo esserseli portati fin su, legati in vita, in condizioni così pericolose? Lo ha fatto sull'Everest, ci ha provato sul K2, finché le condizioni lo hanno permesso. Con queste premesse, anche una maratona estrema sembrerebbe roba per comuni mortali. Ma Hans non disdegna. E qualche volta, per sfida personale, si è schierato al via in prove più “normali”.
“Il numero? Me lo sono messo quattro o cinque volte, in qualche gara di skyrunning dalle parti di casa mia. Ma non sono motivato per gare del genere. Quando corro, come quando salgo un Ottomila, penso soprattutto alle mie sensazioni. In certe situazioni conta l'esperienza, la testa. In una spedizione ad alta quota avere intorno un centinaio di persone può essere un aiuto, ma anche un freno. Guai se uno si mette a fare i conti sul ritmo degli altri. Quando sono solo in montagna, e magari in un'ora ho fatto solo cinquanta metri, non mi preoccupo di quanto viaggiano forte gli altri. Penso: fa niente, ho ancore sette ore per fare la cima, recupererò. Ascolto solo le mie pulsazioni. So quello che posso chiedere al mio fisico, e le ore di allenamento spese durante la preparazione, anche quelle di running, sono le mie certezze”.
Niente da fare. Kammerlander è e resterà un isolato della corsa. Ma gli piace condividere, almeno con le parole, certi attimi speciali di questa vita tra i boschi.
“I ricordi più belli della mia vita da runner di montagna sono legati al Moosstock. E' la cima sopra Acereto, il mio paese. L'avrò salita cinquecento volte, la prima ad appena otto anni e di nascosto dai genitori. E' alta 3059 metri, partendo da casa mia sono 1630 metri di dilsivello. Quasi sempre l'affronto lasciando a casa l'orologio, ascoltando solo il mio corpo. Ma qualche volta il cronometro con me l'ho portato. Il miglior tempo che ho registrato, qualche anno fa, è stato di un paio di secondi inferiore all'ora e otto minuti. Parlo della sola salita, naturalmente. So che in tanti hanno provato a far meglio, ma è difficile. Io conosco quella montagna come le mie tasche, è come se corressi nelle stanze di casa mia. A volte esco dai sentieri e corro su strade inesistenti, su percorsi che sono solo nella mia testa”.
La fatica è una compagna fedele. Non la cerca, Hans. Semplicemente, sa che prima o poi arriverà, e bisogna farne conto. Il titolo di uno dei suoi splendidi libri, “Malato di montagna”, è la chiave di lettura. La sua filosofia di vita. In questo si sente simile ai corridori di lunga lena.
“Credo esista una specie di “malattia” del runner, e che in parte assomigli al mio essere “malato di montagna”. Ho capito di essere affetto da questa strana malattia nel '99, quando dopo aver rischiato un'amputazione delle dita dei piedi per un congelamento ho passato una primavera a casa, senza poter progettare avventure. Stare a guardare mi faceva soffrire. Sono un “malato” e ne sono consapevole: devi esserlo per affrontare gli ultimi trecento metri verso la cima dell'Everest senza l'aiuto dell'ossigeno. Quell'ultimo tratto non è affatto bello, se vai avanti ti fai del male. Credo che sia così anche per un maratoneta: se arrivi agli ultimi chilometri e sei costretto a giocartela con altri tre o quattro atleti, viaggi al limite e non te la godi di sicuro. Ma il bello, la magìa, arriva dopo. Quando rivedi quello che hai fatto. Quando io guardo la foto di un Ottomila e so che sono salito lassù. Quando un runner rivede la foto di un arrivo concitato e vincente, e freme ripensando a quegli attimi. E' il ricordo di ciò che hai fatto che ti rende felice”.
Sa anche stupire, uno così. Lo immagini immerso in mille progetti, e lui tira il freno. Ne ha, di sicuro. Ma forse sta volgendo lo sguardo altrove. Questa terra, dall'alto, lui l'ha già vista. Come pochi al mondo.
“Ci sono ancora molti traguardi aperti, nell'alpinismo estremo. Per dire: la traversata di Everest, Lhotse e Nuptse in Himalaya. Tre Ottomila di fila. Una specie di trail di alta, altissima montagna... Fino a qualche tempo fa pensavo che ci sarebbero voluti cent'anni, per riuscirci. Oggi ci sono giovani alpinisti già tecnicamente in grado di affrontare l'impresa. Caso mai, occorrerà loro ancora qualche anno per fare esperienza. Ma non so se sarò ancora io ad affrontare imprese del genere. Un anno fa ho salito in prima assoluta lo Jasemba, un Settemila in Nepal, insieme a Karl Unterkircher, che se ne è andato tragicamente nel luglio scorso sul Nanga Parbat. Ecco, il valore del ricordo è anche questo. Ripensando a quell'impresa, rivedendo le immagini di quella montagna, in me rivive l'entusiasmo di Karl. E mi accompagna sempre. Il futuro? Ho superato i cinquant'anni, e da sei mesi ho accanto a me mia figlia Tzara, che mi ha cambiato la vita. L'esperienza ovviamente c'è, per le motivazioni staremo a vedere. Ho rischiato tutto, in questi anni. Ma qualunque decisione prenda, la corsa resterà sempre una parte di me”.

HANS KAMMERLANDER è nato ad Acereto, in Val di Tures, il 6 dicembre 1956. Ha conquistato tredici dei quattordici Ottomila della Terra senza l'ausilio di ossigeno. Tra le sue imprese estreme, la salita dell'Everest in meno di 17 ore, con successiva discesa con gli sci in prima assoluta, e la prima traversata di due Ottomila (Gasherbrum I e II, con Messner nel 1993). Il suo ultimo successo è del 2007: prima assoluta sullo Jasemba Peak (7350 metri), in Nepal, insieme a Karl Unterkircher.

(da Runner's World, ottobre 2008)

Commenti

Post popolari in questo blog

Bonatti, un grande italiano

Lacedelli, antieroe nella leggenda

Perché vivo