L'ultimo porto



Ed erano stati giorni, mesi, anni di felicità. Sentiva intorno un’atmosfera nuova, un calore dentro che lo faceva stare bene. Aveva cercato per una vita quel porto, sapeva che lì avrebbe potuto finalmente lasciar fuori l’irrequietezza che lo accompagnava da sempre. E fu così, per tutto quel tempo. Si sentiva accettato, amato, voluto finalmente. Era una sensazione nuova, bellissima.


Fu lui a sbagliare, certamente. Non si perdonava quell’impazienza, gli sembrava che tutto fosse così semplice e naturale da non dover tornare indietro ogni volta, passare e ripassare dal via, doversi guardare da tutto e da tutti, dagli occhi degli altri, dalla morale e dalla piattezza di vite banali che pretendevano di giudicare il suo entusiasmo. Si incolpò di tutto, ma dentro continuava a guardare la realtà: viveva in uno scantinato, se ne stava giorni interi in quel buio aspettando quel paio d’ore in cui era ammesso alle feste.

Iniziò a farsi domande, e le domande sono maledette. Si chiedeva se davvero quello dovesse essere il prezzo da pagare, se la felicità fosse un percorso davvero così complicato. Non avrebbe dovuto pensarci tanto, ma a lui sembrava tutto così chiaro. Si sentiva finalmente a casa, avrebbe dato l’anima per avere quello che gli sembrava di meritare. E la dava, l’anima. Mettendoci energia, in ogni istante.
Ma la cantina gli sembrava sempre più stretta, e un inverno così rigido non capitava da una vita, in paese. Il freddo passava attraverso i muri. Forse era l’aria che veniva dall’oceano, carica di umidità, densa come la pioggia nella tempesta. La notte iniziò a fargli paura, proprio a lui che aveva navigato notti e notti, sicuro di sé, per arrivare fin lì. Non le sopportava, quelle mura, non sopportava di dover bruciare tutta quell’energia sperando che tutto cambiasse. Le domande lo soffocavano. Sarò davvero amato, avranno davvero voglia di avermi con loro? Perché devo restare qui, allora? Perché tenermi nascosto qui, allora?

Fu così che una notte uscì, guardò ancora quel piccolo mondo dove avrebbe voluto passare il resto della sua vita, poi prese la strada del porto. Liberò la vecchia barca dagli ormeggi e riprese il mare. Piangeva mentre vedeva la banchina allontanarsi, ma lo faceva piano, senza far rumore, perché non voleva farsi sentire. Sapeva che quella sarebbe stata l’ultima uscita. Che in mezzo all’oceano, stavolta, non avrebbe più trovato la forza di cercare approdi. Si lasciò portare al largo, e presto le luci del paese, del porto, della terra laggiù svanirono. L’ultima fu quella della casa dove lo avevano accolto. Pensò a quelle luci, a quel calore che aveva provato nell’incrociarle, a quei pochi momenti in cui aveva sentito che tutto filava via serenamente, naturalmente. Si sentì solo. Lo era stato tante volte, e gli era sempre piaciuto, in fondo. Stavolta, era una solitudine diversa. Non l’aveva cercata. Pensava di non doverci più fare i conti.

Provò a masticare un po’ di tabacco, ma era umido da buttar via. Provò a governare meglio la barca, ma il timone era più pesante del solito. O forse era il suo cuore, adesso. Troppo gonfio per non esplodere. Abbracciò il timone cercando di governare la rotta. Ma quale, poi? Non sapeva neppure dove andare. Né se era davvero un buon marinaio. Probabilmente si addormentò. Sì, forse era soltanto stanchezza. O forse no. Lasciò che comunque ci pensassero loro. La barca, l'oceano, la notte. Era stata un'onda a portarlo fin lì. Un'onda lo avrebbe portato via.

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