Una donna romantica
Io
sono nata in un tempo sbagliato. Il mio tempo era un altro. Il tempo a cui
sento di appartenere è un tempo di sentimenti, mentre questo è un tempo di
cose. Quanti gesti devo fare in una giornata? Quante cose mi stanno addosso, mi
tormentano, mi schiavizzano? E io, dove mi rifugio? Forse avranno ragione loro
quando dicono che sono svagata.
Io speravo di incontrare un signore vestito di bianco con un gilè color rosa
che mi guardasse con uno sguardo implorante, uno sguardo con un lampo di
felicità nel mezzo al quale stavo io, pure vestita di bianco, da essere quasi
una parvenza. Nella realtà invece incontravo solo donne sudate, un carabiniere
sbracato, cagnacci. E poiché crescevo negli anni e tutte si sposavano, mi sono
sposata anch’io. Io oggi non arrivo a fare la cucina, non arrivo a far nulla.
Sento un rumore di ascensore, speriamo che non sia lui. Sono così indietro che mi ci vuole almeno un’altra mezz’ora. Ma io non riesco nei lavori, la testa mi va via, fantastico. Se non fosse che ancora amo la vita, e se non fosse un peccato dirlo, io vorrei morire.
Loro sono molto bravi. Comprano, lavano, spazzano, puliscono, procacciano,
puliscono di nuovo, cuciono, cuociono, spazzano. E poi vanno in ufficio,
lavorano, lavorano. Anch’io vado in ufficio, spazzo. Ma io odio tutto questo.
Io non sono di questo tempo. Vorrei essere nata ai tempi della Castellana di
Vergi e avere un amante e per vederlo vorrei rischiare la vita. Se morissi come
la castellana di Vergi, e sarebbe terribile tutto quel sangue versato sul mio
corpo che ne ha così poco, chiamerebbero una rosa col mio nome; io avrei avuto
un destino per quanto triste e terribile. Ma così io ho il destino di spazzare,
cucire, andare in ufficio, stare attenta alle zebre, stare attenta al bambino.
Il bambino piange, urla, scacazza, mangia, vuole la pappa, e io pulisco, lavo,
spazzo, stiro. E poi il bambino cade, il bambino cade sempre, e io con due sole
mani devo badare al latte, al bambino, al ferro da stiro, al forno, al termos,
al boiler…….No, io sono stufa. Non me ne frega nulla. Io sono svagata.
Sissignori, cacciatemi via, mandatemi in una casa di pena, maleditemi, ma io
sono stanca e me ne frego di essere brava, me ne frego di questa vita.
A volte penso di fuggire. Ma dove? Fuggire di notte. Ma la porta fa rumore.
L’ascensore fa un rumore d’inferno. Potrei calarmi giù con una corda nel
cortile poi via. Ma via dove? Di notte ti scippano, ti fanno a pezzi, ti
brutalizzano. Se scappassi di giorno invece potrei prendere il treno, andare
…..chissà…..a Casalecchio di Reno. Ma a fare cosa? Se uno arriva a Casalecchio
di Reno avrà delle cose da fare, comprare del vino, delle patate. E io cosa
faccio? No, non posso andare a Casalecchio di Reno. Posso andare da mia zia,
quella matta, che è l’unica creatura ragionevole e buona della famiglia. Ma non
ha nulla da mangiare e poi la sorvegliano, mi troverebbero subito. Potrei
andare negli ostelli della gioventù in Olanda e raccogliere fiori e fare il
formaggio coi contadini. Ma poi mi cercherebbero, mi fermerebbe la polizia.
Se divorziassi? Come faccio a trovare le ragioni per divorziare? E poi se
divorzio cosa cambia? C’è in tutta la città uno che sia gentile, romantico?
Penso a quando ero piccola, e avevo un paio di scarpe nere di pelle lucida. Mi
piaceva tanto camminare con quelle scarpe lucide e la vestina verde con la
gonna plissettata. Camminavo sul muretto del giardino e la gente mi guardava.
Mi guardava e diceva:”ma che bella bambina!”. Io stavo ore e ore nel giardino
immaginando che tutte le piante mi guardassero e mi facessero le riverenze.
Camminavo fra le margherite e i rododendri che erano i miei sudditi più folti e
festosi e poi vicino al cancello, proprio sotto l’arco che coronava il
cancelletto di ferro battuto, dove sventolavano tutte le campanule che io
sentivo sopra di me come se le avessi attorno ai capelli, mentre il cuore mi
diceva: tu sei la regina. Non avrò più quella solitudine incantata, quelle mie
ore di silenzio e di fiori. Adesso bisogna che mi sbrighi perché lui viene a
casa e vuole vedere tutto in ordine.
Perché stasera si esce e la casa deve essere a posto. Il bambino oggi è dalla
nonna e così noi si esce e si va al cinema e poi al caffè e poi dagli amici e
poi a letto. A letto lo so come va a finire: sopra di me, lo so a occhi chiusi.
Mi viene addosso come se sgretolasse, come un armadio. Per fortuna il corpo
delle donne è estremamente elastico. Io fingo di godere e a volte godo anche
perché la natura è piena di risorse e fa miracoli. Ma fra poco ho paura che
diventerò frigida e allora sarà terribile. Ma perché mi sono messa in questo
impiccio?
Quando ero ragazza mi piaceva uscire di casa e camminare per la città. Non
all’ora della passeggiata come ancora usa nelle cittadine di provincia. Quelli
sono altri momenti quando tutti si guardano l’un l’altro come nello specchio:
occhi contro occhi, capelli contro capelli, e così foulard, fondotinta,
rossetti. No, a me piaceva la domenica di primo pomeriggio col sole, quando
l’aria si fa musicale, e il sole diventa un grande invisibile geometra. Allora
i portici sono ancora vuoti melanconici. La solitudine è tanta che le case
hanno un’aria smarrita e sembrano chiedersi: che paese è questo? E’ qui che
abitava la famiglia Verzini?
Sento un rumore di ascensore, speriamo che non sia lui. Sono così indietro che mi ci vuole almeno un’altra mezz’ora. Ma io non riesco nei lavori, la testa mi va via, fantastico. Se non fosse che ancora amo la vita, e se non fosse un peccato dirlo, io vorrei morire.
NINO
PEDRETTI
da ‘Monologhi e Racconti’
da ‘Monologhi e Racconti’
Nell’immagine: Edward
Hopper, City Sunlight, 1954
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