La rivincita di Zecca



Ah, io tuo padre me lo ricordo bene, sai. Entrava nel bar poco dopo cena, sparava un paio delle sue cazzate e si metteva lì a guardare se qualcuno lo stava ad ascoltare. Lo chiamavano tutti Zecca, e io credevo fosse il cognome, finché non ho capito che era per via del fatto che le sparava grosse. Io a un certo punto, quando tutti si erano rimessi a giocare a boccette e lui sembrava un po’ triste, perché nessuno stava più ad ascoltarlo, mi alzavo e andavo lì, non lo seguivo nei suoi deliri, ma almeno gli offrivo un bianchino.

Te, adesso, ti vedo. Esci incazzato dall’ufficio, ti hanno trattato come al solito di merda. E non han mica tutti i torti, devo dire. Ti infili in tangenziale e ciao, coda, che stavolta non era neppure orario, ma qui non si capisce più quando si formano, le code. Arrivi a casa e butti un occhio su Facebook. C’è qualcosa da dire, finalmente. Ti carichi a molla, spari cazzate come tuo padre, ma come per incanto ti becchi una manciata di likes che ti senti invincibile. E continui. E accidenti, nessuno che si volti a dirti “ehi, Zecca, falla finita che porti anche sfiga, ho mancato un altro filotto”. Allora ti senti forte, e vai avanti. Senza nemmeno pensare, il cervello è in stand by da prima. Dalla tangenziale.

Dai Zecca, vieni qui. Rilassati. Ti offro un bianchino. Tuo padre come sta, tutto bene? Accidenti, sei coglione quasi più di lui…

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