Ciao e grazie, onorevole Giacomino


Sarà un centenario più povero e più vuoto, quello del Bologna. Il destino si è portato via, proprio a pochi mesi dall’appuntamento, l’ultima bandiera. Di questa società, dei suoi anni d’oro, di un calcio che non esiste più e di cui sentiamo la mancanza. Si è preso l’onorevole Giacomino, portandolo lassù dove deve pur esserci, da qualche parte, un campo in cui far giocare i campioni che hanno arricchito le nostre giovinezze e i nostri sogni. Giacomo Bulgarelli. Arrivò al Bologna da Portonovo di Medicina, un ragazzino dai modi gentili che studiava al San Luigi e avrebbe anche continuato gli studi avviati a Giurisprudenza, se il mondo del calcio non lo avesse rapito come sempre fa con i talenti purissimi.

Era magro, apparentemente gracile, ma tra i giovani rossoblù si faceva subito notare perché aveva una marcia in più. A diciott'anni frequentava già la prima squadra, e Alfredo Foni lo fece debuttare il 19 aprile del ‘59, non ancora diciannovenne. Nel ‘60 era nella Nazionale Olimpica di Viani e Rocco, quella che si giocò al sorteggio, perdendolo, il passaggio alla finale dopo il pari con la Jugoslavia, insieme ad altre giovani promesse che si chiamavano Rivera e Trapattoni.

Tornato a Bologna, incrociò la strada di Fulvio Bernardini e fu la consacrazione. Fu il Dottore a inventargli quel ruolo di mezzala trequartista che gli aprì gli orizzonti, e la strada per la Nazionale maggiore. Altro cambio di ruolo, in rossoblù, con l’arrivo di Haller: fantasista il tedesco, regista con compiti d'interdizione Giacomino, così in anticipo sulla sua epoca. Intorno a lui Bernardini costruì la squadra dei sogni, il Bologna che giocava come si gioca solo in Paradiso, e che in virtù di tutto quel talento andò a prendersi l’ultimo scudetto della sua gloriosa bacheca, nello spareggio contro l'Inter giocato con il dolore e la rabbia nel cuore appena dopo la morte del presidente Dall'Ara, il 7 giugno 1964 all'Olimpico.

Poi, fu semplicemente il Bulgaro. O l'onorevole Giacomino, come gridava nel suo megafono quell'allegrissimo mattocchio di Gino Villani dal suo solito posto, sotto la torre di Maratona. Giacomo, dal campo, rispondeva con un saluto timido e un sorriso aperto, e la partita iniziava ufficialmente lì.

Giacomo Bulgarelli, la bandiera. Oltre a quello scudetto, con i colori del suo Bologna ha vinto una Mitropa, una Coppa di Lega italo-inglese e due Coppe Italia. Poco, per un giocatore del suo carisma e del suo talento. Ma a lui è sempre andata bene così. Gli piaceva essere il simbolo del calcio nella sua città e nella squadra che amava. Avrebbe potuto cambiare aria. Lo cercarono in tanti, e più di una volta. La più clamorosa all'inizio degli anni Settanta, quando il presidente Venturi era ormai deciso a cederlo al Milan e solo il netto rifiuto di Mondino Fabbri e la rabbia montante della tifoseria scongiurarono l'operazione. Villani continuò a urlare quel saluto nel suo megafono, l'onorevole Giacomino continuò a scendere in campo accanto a nuovi idoli (Bellugi, Liguori, Savoldi) fino alla soglia dei trentacinque. Cambiò ancora ruolo, si inventò anche libero in pieno accordo col “Petisso” Pesaola. Chiuse il 4 maggio 1975 quella sua lunga vita in rossoblù. Dopo 486 partite e 58 reti (391 e 43 in campionato), una prova di forza e di fede, di attaccamento ai colori. Come non se ne vedono più.

Giacomo Bulgarelli e la Nazionale. Debuttò in azzurro ai Mondiali in Cile, nel ‘62, e contro la Svizzera fece subito doppietta per far capire chi era. Uscì per infortunio nella maledetta partita con la Corea ai Mondiali del '66, e dopo di lui fu il diluvio. Lo esclusero dal giro nel '69, neanche trentenne, perché aveva scelto di servire fedelmente il Bologna e il Bologna non aveva più le maniglie giuste nel palazzo del potere pallonaro. In tutto 29 presenze, poche per un campione di razza come lui, e sette gol azzurri.

L’onorevole Giacomino ha amato il Bologna fino all'ultimo. Lo ha anche traghettato, da dirigente, in momenti delicati. E poi si è dedicato alla televisione, impadronendosi subito dei meccanismi e dimostrandosi uno dei commentatori più preparati, più precisi, più autorevoli, più capaci di gestire e di gestirsi. Se ne è andato dopo aver lottato contro un male dannato, affrontato con la dignità di sempre. Oggi che ci manca immaginiamo che lassù si sia ritrovato con quel bel manipolo di bolognesi duri e puri che hanno amato i colori della loro città inseguendo un pallone. Che li hanno amati tanto da non staccarsene mai.Immaginiamo che sia lì, accanto a Anzlèin Schiavio, Amedeo Biavati dal passo doppio. Le bandiere ci hanno lasciati, noi non dimenticheremo mai il colore e il calore delle bandiere.
Marco Tarozzi
(l'Informazione-Il Domani, 14 febbraio 2009)

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