Canto per Zatopek

Un corridore deve correre con i sogni nel cuore, non con i soldi nel portafogli
Emil Zatopek


Zatopek.
Quella corsa senza grazia, di fatica. Perché la corsa è fatica, è struggimento, è il dolore della soglia da superare. E chi dice che si diverte e basta, mente.
Zatopek.
Lavorava in fabbrica, da ragazzo. Mai stato interessato alla corsa. Lo iscrissero a una gara sociale. Si interessò. A modo suo. Con la cultura del lavoro, che è l'unica che paga nell'atletica. Perché nell'atletica non si incanta: lo dicono i numeri, i tempi, se hai le gambe buone. A meno che, certo, uno non scelga scorciatoie. Lui no. Sceglieva i chilometri. Tanti, tutti i giorni.
Zatopek.
Uscì alla ribalta internazionale nel 1948, ai Giochi Olimpici di Londra. Primo nei 10.000, secondo nei 5.000 dietro a Gaston Reiff. Quattro anni dopo, a Helsinki, il capolavoro. Oro nei 5.000, oro nei 10.000. E oro, qualche giorno dopo, nella maratona. La sua prima maratona. Aveva deciso di correrla all'ultimo momento, in mezzo a tutti quegli specialisti gli sembrò un gioco. Con tutti i chilometri che aveva nelle gambe, probabilmente lo era.
Zatopek.
Quattro ani dopo, a Melbourne (terza Olimpiade) fu sesto in maratona due settimane dopo un'operazione di ernia inguinale. Finì lì, e alla collezione aveva aggiunto record mondiali nei 5000, nei 10000 (cinque volte), nella 20km. (due volte), nell'ora di corsa (due volte), nei 25 e nei 30 km.
Zatopek.
In Cecoslovacchia era un eroe. Credeva nella sua terra, credeva nel partito. Attivista, figura influente. Ma nell'ala liberista. Dopo la Primavera di Praga lo “epurarono”. Gli tolsero gli incarichi, lo misero a lavorare in una miniera di uranio. Tenne la schiena dritta. Poteva soccombere, con la sua abitudine alla fatica?
Zatopek.
Se ne è andato il 22 novembre di otto anni fa, appena scollinato il muro del terzo millennio. Restano le sue immagini in bianco e nero. Quella corsa sgraziata. L'amore infinito per Dana, la moglie conosciuta tra pista e pedane (oro a Helsinki '52 e argento a Roma '60 nel giavellotto). Resta la sua cultura del lavoro, che dovrebbe essere d'esempio. Dovrebbe.

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