Per non dimenticare Weisz
Per non dimenticare. Nel giorno della memoria, Bologna ha rispolverato tra tanti drammi quello di un uomo di sport che era in anticipo sui tempi. Un grande maestro di calcio che sparì, insieme a tutta la sua famiglia, ad Auschwitz. E, quel che peggio, che per decenni nessuno si preoccupò di ritrovare, se non altro per sapere che fine avesse fatto.
Oggi la città ha reso giustizia ad Arpad Weisz, allenatore a cui il calcio italiano e il Bologna devono tanto. Almeno, consegnandolo alla nostra memoria e a quella futura. Nei giorni scorsi ho raccontato chi era stato questo grande dello sport sul giornale per cui lavoro. Provo a considerarlo il mio modesto contributo a una giornata come questa.
Martedì mattina il Comune di Bologna sistemerà una targa sotto il portico dello stadio Dall’Ara, in piazza della Pace. E chiuderà un conto aperto, da più di sessant’anni, con la memoria. Su quel pezzo di marmo ci sarà il nome di Arpad Weisz, uno dei più grandi e vincenti tecnici di calcio della storia del calcio italiano e del Bologna (e all’appuntamento, infatti, non mancherà la presidente rossoblù Francesca Menarini). Un nome che le nefandezze della storia, gli orrori del nazismo, l’esasperata volontà di dimenticare del dopoguerra avevano seppellito, nascosto, cancellato.
Arpad Weisz era ebreo. Sparì da Bologna, con la sua famiglia, il 16 ottobre del 1938, dopo l’inasprimento delle vergognose "leggi razziali". Cercò riparo e speranza prima in Francia e poi in Olanda, cercò anche di sentirsi vivo e di immaginarsi un futuro, prendendo le redini del Dordrecht, piccola squadra di paese che sotto la sua guida fece cose ottime. Ma anche lì arrivò la mano insanguinata del nazismo. Lo presero e lo portarono via. E fu l’ultimo viaggio. Arpad, sua moglie Elena, i figli Roberto e Clara furono deportati dapprima in campi di lavoro, poi varcarono i cancelli di Auschwitz. Non ne uscirono vivi. Di lui si conosce (grazie al toccante lavoro di ricerca di Matteo Marani, che nel 2007 ha raccontato la storia e il dramma di quest’uomo nel libro "Dallo scudetto ad Auschwitz") la data di morte: 31 gennaio 1944. Dopo un’infinità di giorni vissuti in solitudine, disperato tra i disperati, aggrappato a una vita che sentiva scivolare via senza speranza.
Il silenzio, dopo, è stato pesante quanto la tragedia. Perché Weisz non era uno sconosciuto, eppure anche il suo nome finì travolto dalla corsa alla rimozione totale. Un esempio paradossale, tanto per capire meglio cosa abbia significato questa prolungata dimenticanza: è come se al giorno d’oggi un allenatore vincente di fama internazionale, come Capello o Ferguson, svanisse improvvisamente nel nulla e a nessuno venisse in mente di chiedersi perché, o come, o dove. Così è andata per Arpad Weisz, che pure nella storia di una società come il Bologna, che proprio in questo 2009 è pronta a festeggiare il secolo di vita, merita un posto tra i grandi.
Weisz, nato a Solt nel 1896 da genitori ebrei ungheresi, arrivò in Italia per chiudere una carriera importante da giocatore, che gli aveva fatto anche indossare la maglia della sua Nazionale alle Olimpiadi del 1924 e in altre cinque occasioni. Giocò, da ala sinistra, una stagione nel Padova e una nell’Inter, fino al 1926, quando proprio dalla Lombardia, ad Alessandria, iniziò la sua carriera di allenatore. Una spiccata attitudine all’istruzione del gioco gli fece guadagnare dopo pochi mesi la panchina dell’Inter. Dove, con Fulvio Bernardini centromediano, rivoluzionò gli schemi inventando, lui di scuola calcistica danubiana, la "linea dei cinque terzini", arretrando le mezzeali dall’attacco al centrocampo e mettendo mediani e centromediano in marcatura. La sua Ambrosiana-Inter arrivò allo scudetto nel 1930, primo campionato a girone unico, e fu ancora seconda nel ‘33 e ’34.
A Bologna arrivò nella stagione 1934-35, subentrando al connazionale Kovacs. Chiuse quella stagione al sesto posto, riorganizzò la squadra e con soli 14 elementi in rosa conquistò subito lo scudetto nel ‘36, ripetendosi l’anno dopo. Fu quello, probabilmente, il Bologna più forte di tutti i tempi, capace di andare a vincere il Torneo dell’Esposizione di Parigi, una sorta di Mondiale per club dell’epoca, battendo Sochaux in semifinale e Chelsea in finale, entrambi per 4-1. Quando fu costretto a fuggire dall’Italia, nel ‘38, fu sostituito dall’altro leggendario allenatore rossoblù Hermann Felsner, che andò a vincere uno scudetto per buona parte suo. Così, quando si fa la conta dei sette trionfi rossoblù e si scopre che Felsner ne ha vinti quattro, Weisz due e Bernardini uno, bisognerebbe ricordare che il conto tra i due grandi tecnici stranieri sarebbe in parità, se la parte più bieca della storia non si fosse messa di traverso.
Quella targa servirà a ricordare tutto questo. Un grande uomo, un tecnico in anticipo sui tempi, una vita spezzata senza senso. E questa volta nessuno potrà più dimenticare.
Arpad Weisz era ebreo. Sparì da Bologna, con la sua famiglia, il 16 ottobre del 1938, dopo l’inasprimento delle vergognose "leggi razziali". Cercò riparo e speranza prima in Francia e poi in Olanda, cercò anche di sentirsi vivo e di immaginarsi un futuro, prendendo le redini del Dordrecht, piccola squadra di paese che sotto la sua guida fece cose ottime. Ma anche lì arrivò la mano insanguinata del nazismo. Lo presero e lo portarono via. E fu l’ultimo viaggio. Arpad, sua moglie Elena, i figli Roberto e Clara furono deportati dapprima in campi di lavoro, poi varcarono i cancelli di Auschwitz. Non ne uscirono vivi. Di lui si conosce (grazie al toccante lavoro di ricerca di Matteo Marani, che nel 2007 ha raccontato la storia e il dramma di quest’uomo nel libro "Dallo scudetto ad Auschwitz") la data di morte: 31 gennaio 1944. Dopo un’infinità di giorni vissuti in solitudine, disperato tra i disperati, aggrappato a una vita che sentiva scivolare via senza speranza.
Il silenzio, dopo, è stato pesante quanto la tragedia. Perché Weisz non era uno sconosciuto, eppure anche il suo nome finì travolto dalla corsa alla rimozione totale. Un esempio paradossale, tanto per capire meglio cosa abbia significato questa prolungata dimenticanza: è come se al giorno d’oggi un allenatore vincente di fama internazionale, come Capello o Ferguson, svanisse improvvisamente nel nulla e a nessuno venisse in mente di chiedersi perché, o come, o dove. Così è andata per Arpad Weisz, che pure nella storia di una società come il Bologna, che proprio in questo 2009 è pronta a festeggiare il secolo di vita, merita un posto tra i grandi.
Weisz, nato a Solt nel 1896 da genitori ebrei ungheresi, arrivò in Italia per chiudere una carriera importante da giocatore, che gli aveva fatto anche indossare la maglia della sua Nazionale alle Olimpiadi del 1924 e in altre cinque occasioni. Giocò, da ala sinistra, una stagione nel Padova e una nell’Inter, fino al 1926, quando proprio dalla Lombardia, ad Alessandria, iniziò la sua carriera di allenatore. Una spiccata attitudine all’istruzione del gioco gli fece guadagnare dopo pochi mesi la panchina dell’Inter. Dove, con Fulvio Bernardini centromediano, rivoluzionò gli schemi inventando, lui di scuola calcistica danubiana, la "linea dei cinque terzini", arretrando le mezzeali dall’attacco al centrocampo e mettendo mediani e centromediano in marcatura. La sua Ambrosiana-Inter arrivò allo scudetto nel 1930, primo campionato a girone unico, e fu ancora seconda nel ‘33 e ’34.
A Bologna arrivò nella stagione 1934-35, subentrando al connazionale Kovacs. Chiuse quella stagione al sesto posto, riorganizzò la squadra e con soli 14 elementi in rosa conquistò subito lo scudetto nel ‘36, ripetendosi l’anno dopo. Fu quello, probabilmente, il Bologna più forte di tutti i tempi, capace di andare a vincere il Torneo dell’Esposizione di Parigi, una sorta di Mondiale per club dell’epoca, battendo Sochaux in semifinale e Chelsea in finale, entrambi per 4-1. Quando fu costretto a fuggire dall’Italia, nel ‘38, fu sostituito dall’altro leggendario allenatore rossoblù Hermann Felsner, che andò a vincere uno scudetto per buona parte suo. Così, quando si fa la conta dei sette trionfi rossoblù e si scopre che Felsner ne ha vinti quattro, Weisz due e Bernardini uno, bisognerebbe ricordare che il conto tra i due grandi tecnici stranieri sarebbe in parità, se la parte più bieca della storia non si fosse messa di traverso.
Quella targa servirà a ricordare tutto questo. Un grande uomo, un tecnico in anticipo sui tempi, una vita spezzata senza senso. E questa volta nessuno potrà più dimenticare.
Commenti
La storia e il libro meritano.
Ho letto di un libro su Zatopek (un altro hombre vertical) che dovrebbe uscire a breve, forse da Adelphi. Ne sa qualcosa?
giorgio
http://www.gazzetta.it/Libri/Primo_Piano/2008/12_dicembre/zatopek.shtml
Ho letto da qualche parte che metteva insieme fino a 40 ripetute sui 400 da concludere sotto il minuto. Quando faccio le mie miserelle 10 o 12 ripetute (distanza più breve e ritmo molto più lento), penso sempre a lui.