Il mare lontano
Era uno spettacolo immergercisi, lasciare che l’onda arrivasse ad accarezzarlo, a farsi penetrare, era con quell’onda che gli piaceva fare l’amore. Nuotare, verso chissaddove, verso quella roccia laggiù, e poi oltre l’insenatura, oltre tutto. Stava fuori ore, e nessuno veniva a cercarlo. Tornava esausto, felice.
Lui amava il mare e stava lì. Aveva voglia di nuotare con quel ritmo regolare, nuotare a lungo come aveva fatto tante volte anche di notte, sempre meravigliandosi. Che invece qui la notte arrivava portandogli sgomento, e non bastava un libro o una canzone, qualcosa gli bruciava nello stomaco. Succedeva, a volte, che arrivasse un lamento strano, sommesso, inconsolabile e solitario. Era allora che gli sembrava di capire tutta la storia dei blues che prendono l’anima, e si chiedeva se l’anima non fosse lì, proprio lì, dentro a quel bruciore che non passava. E non poteva passare, del resto, perché poi succedeva che qualcosa brillasse improvvisamente nel bicchiere, e portasse un conforto buono per passarci una mezz’ora, prima di ripiombare nel buio.
Capì che la notte gli faceva paura, non era mai stato così. Gli mancava il mare, gli mancava quell’onda in cui perdersi.
Insomma, non è niente di speciale la storia. Normale che nella notte, proprio nella notte, forse per sfidarla, abbia raccolto gli stracci e sia sparito. Qualcuno pensa sia andato a staccare definitivamente le medaglie, per non ritrovarsi un giorno con qualcuno intorno a misurargli la pressione. C’è chi la mette giù meno dura. Avrà trovato la forza di cercare un’altra volta il mare, e di perdercisi dentro. A quel punto, che importa sapere se sia stata l’ultima? Limitiamoci ai fatti: la finestra è aperta, e lui non c’è più.
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