Il paese dentro la città

Cirenaica, ancora. Qualcosa di diverso. Un villaggio piantato lì, in mezzo alla città. Con i suoi confini, che per me restano indelebili. Da una parte e dall’altra di via Libia. Il passaggio a livello della Veneta da una parte, il ponte sulla ferrovia grande dall’altra, che di là sfiora il vecchio campo Savena e ti butta dritto in piazza Mickiewicz, spalancandoti davanti la zona della Fiera. Poi, certo, ci sono le vie di fuga. Bentivogli, per saltare il passaggio a livello col cavalcavia; Paolo Fabbri come un’uscita secondaria; Barontini, con le sue storie di solitudine e sonni provvisori.

Cirenaica, ogni volta. Un mondo altro, con i suoi ritmi lenti, la sua gente invecchiata, quella venuta da fuori a creare un melting pot di razze, umori, espressioni della parola e del viso. Uomini e donne che non si conoscono e neppure si sfiorano, altrove. Che qui fanno comunità, che lo vogliano o no. Perché ogni volta che valicano quei confini, perdono identità e si smarriscono nel mondo fuori. Nella città, che è uguale a sé stessa in ogni angolo, fuori da qui. E allora, hanno bisogno di tornare indietro. Sempre.




Cirenaica. Tutta una vita. La prima volta, arrivando da quel passaggio a livello. Era la linea 22, che non c’è più. L’autobus giallorosso mi scaricava in Massarenti, quasi davanti a Wolf, e infilavo via Libia fino alle Giordani. I tempi delle scuole medie, i primi viaggi da solo fatti per entrare qui, in questo paese. Incontrando quasi ogni giorno Settecappotti, che andava con la sua bicicletta verso chissà quale Nessundove. I primi sentieri da imboccare, storie americane ispirate da una insegnante così unica e così avanti, e con quel nome che suonava cantilena, Marcella Caudarella, per cui non basterebbe un oceano di ringraziamenti. Dopo, il Copernico. Via Regnoli, la presa di coscienza, la casa del Maestrone in via Paolo Fabbri 43, i tavoli di Vito e il cameriere che invecchia con la faccia da bambino, la fornaia nell’angolo, le botte nell’angolo perché, lo diceva proprio il guru lì a due passi, “gli anarchici li han sempre bastonati”. Le prime passioni, gli amori in piedi dietro il giardino, la musica, Andy J che generosamente spiegava l’armonica, le paure, Enrico e i suoi Confusional Quartet, la politica, Aldo Moro nella R4 così vicino e così lontano, i carri armati a meno di un chilometro, i sampietrini e i baci insipidi senza gioia.

Cirenaica, allora e adesso. Un amore mancato, uno perduto. Il primo amore al limite, deviato, sporco, subìto. Che poi, nemmeno era amore. L’altro che viveva lì molto prima che entrasse nella mia vita, e allora il gioco è ritrovare – dopo – i suoi luoghi del cuore. Le bevute nascoste al Jolly, che di posti così non ne esistono quasi più. Ramòn e le sue mille e mille fotografie di corsa. Vite negli angoli, ai margini, di taglio. I giardini della scuola, anche ora. La piscina del Villaggio, per imparare il nuoto e il mio corpo, prima che me lo insegnasse qualcuno. L’ospedale a due passi, dove ho visto l’ultima volta mio nonno, in ritardo, dove si è consumato mio padre, dove ho deragliato e ripreso la strada, ma quando sono uscito ero un altro. Ed è finita che mi sono rituffato lì. Per farmi rivedere. Per dire “ci sono ancora” in un posto che conosco più di quanto non immaginassi, che mi conosce da sempre.







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