Ciao, runner
Un bel paradosso.
Ci sarebbe da festeggiare il mezzo secolo di corsa.
Era il 1975, mi attaccai il numero per gioco alla gara su strada del “Grattacielo”,
a due passi da casa mia.
Riuscii a correre tredici chilometri, senza nemmeno un metro di passo, e la
cosa mi sorprese. Fu la scintilla.
Da lì, sono venuti gli anni migliori: cinque anni dopo, quella gara la vincevo
e il premio era una “crosta” spacciata per quadro d’autore, ma l’orgoglio era
poter uscire finalmente di casa senza essere considerato “quel pazzo che corre
tutti i giorni”. Erano altri tempi, “fitness” e “wellness” erano parole
piuttosto sconosciute.
C’è stato il tempo dei primati personali, il “muro dei quindici” nei 5000
metri, le trasferte per capire un po’ della vita fuori. E poi le altre ipotesi
di me: il triathleta, l’amatore evoluto, quello semplicemente soddisfatto di
correre per sentirsi libero, senza più cronometri, cardiofrequenzimetri,
tabelle e schede.
Adesso finisce tutto. In un anno, i nodi sono venuti al pettine.
Lo sapevo. Da quel giorno di aprile in cui sono entrato nella famigerata “lista
d’attesa”.
Venerdì è il giorno. Avrò un’anca bionica, la destra. Mi muoverò per un po’ con
le stampelle, tirando moccoli al cielo. Per un po’ mi scorderò dei miei viaggi
liberatori in scooter verso la collina. Sarò a volte scontroso, ma dov’è la novità?
Un bel paradosso.
1975-2025; ci sarebbe da festeggiare e invece – puff – smetto di correre per
sempre.
Non ci sarà niente da rimandare alla “prossima uscita”. Ma poi, io raramente
rimandavo. Correre sotto la pioggia, in solitudine, è una delle sensazioni più
belle che si possano provare.
Allora penso a Matt Johnson, il protagonista di “Un mercoledì da leoni”. Arriva
un giorno in cui devi far pace con te stesso, scacciare i demoni, rasserenarti.
Guardare indietro con leggerezza e aspettare quello che verrà. Ridendone con
gli amici: «In fondo, abbiamo fatto epoca…»
Buon cinquantenario.
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