Irlanda, graffiti



Sempre la stessa cosa, ripartire da Dublino. Addosso quella strana malinconia che mi prende quando l’aereo decolla e stacca le ruote dalla terra irlandese. Mai riuscito a spiegare, a spiegarmi. Mai come vorrei o avrei voluto. Succede da quella prima volta, diciotto anni fa, in cui esplorai “l’isola verde” battendola a tappeto, 4800 chilometri in tutto, il che significa anche passare e ripassare, zigzagare, perdersi e ritrovarsi, ascoltare i profumi, incantarsi ai colori.
Questa volta sono stati 2700, nemmeno pochi, sfiorando appena l’entroterra e costruendo il viaggio con l’oceano quasi sempre a vista. Perché è del mare che ho bisogno, sempre, e questo ormai mi è chiaro.

 
Eppure, anche stavolta è stata una scoperta. Di luoghi e memorie, di nomi e storie. Magari appena coperte da un velo sottile di polvere, quello che fa perdere di vista e mai veramente dimenticare.
Cose nuove: un passaggio veloce da Ballyshannon, dove la gente del Donegal ha dedicato una statua a quel figlio dal carattere schivo che non aveva l’animo da star, ma il talento sì. A Rory Gallagher, che con la musica creò e costruì più che con mille parole, e di mille politiche per riunire il suo popolo, incantando protestanti e cattolici di Belfast col suono della sua chitarra, in quello storico concerto del 1972. Nessun grande artista, allora, voleva suonare a Belfast. Rory la pensava diversamente: “La città è piena di bambini. Non vedo perché non dovrei suonare lì”.
 
Cose ritrovate: il viso beato e battuto di Brendan Behan, scrittore, combattente, commediografo, bevitore, oratore splendido, cuore generoso. «Un per­so­nag­gio tur­bo­lento ma deli­zioso, un uomo di spi­rito e d’azione, un bevi­tore incu­rante, un denun­zia­tore impa­vido di inganni e osten­ta­zioni: insomma, il pro­prie­ta­rio del cuore più grande che abbia bat­tuto in Irlanda negli ultimi quarant’anni», secondo Flann O’Brien, che lo conosceva così bene da ritrarlo perfettamente in poche righe. Uno capace di spiegare con ironia anche il dramma che lo avrebbe portato all’autodistruzione, ad appena quarantasette anni: «Bevo sol­tanto in due occa­sioni», diceva, «quando ho sete, e quando no».
 
Cose riviste. La tomba di Yeats a Drumcliff, ai piedi del Ben Bulben: “Getta un freddo sguardo sulla vita, sulla morte. Passa oltre, cavaliere…”. Il lembo estremo di terra a Crookhaven, dove molto prosaicamente ritrovo la zuppa di pesce più speciale del mondo, sarà perché speciale è questo posto. Il pub di Tom Crean, il South Pole Inn di Annascaul, e la sua immagine, bella faccia di uomo che ha vissuto la vita. E la sua storia di esploratore antartico, che fece senza malattie di protagonismo il bene di grandi e storiche missioni, come quelle di Scott e Shackleton, per poi ritirarsi nella sua terra. Penso alle storie di pionieri e avventura che dovevano uscire come un fiume in piena, davanti al camino, in quell’angolo sconosciuto del Kerry.
 
Scoperte e riscoperte. Inis Mòr, la più grande delle Aran, questa volta attraversata finalmente non da turista “mordi e fuggi”, pensata e riflettuta per quasi tre giorni, alloggiando – come dicevano i viandanti veri – alla guesthouse che guarda dritto sul porto, infilandosi nel vento e nella pioggia, trovando sempre rifugio alla fine di ogni cammino. Westport e il pub di Matt Molloy, sommo suonatore di flauto nei mitici Chieftains, anche stavolta in giro per concerti da qualche parte in Europa. Ma anche Westport del canale tagliato dal sole al tramonto, come non l’avevo mai vista, o forse semplicemente non mi ero mai fermata a pensarla così.
 
Ma prima. La prima volta a Belfast. Bobby Sand e gli altri ancora dipinti a colori vivi sui muri, nella parte ovest della città.
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