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Nessuna bandiera

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  Non lasciare l’asciugamano bagnato sul tavolo. Dobbiamo riordinare le cose. Un altro mese e finisce anche questa estate. riporre i costumi da bagno, gli occhiali da sole, le camicie con le maniche corte, le scarpe bianche di tela, i sandali, i colori dei tramonti sul mare sfavillante. Chiuderanno i cinema all’aperto, le sedie ammucchiate sotto la tettoia, gli orari dei traghetti saranno meno frequenti… Ecco, sul soppalco le valigie chiuse aspettano già di sapere quando ripartiremo, dove ci troveremo, fino a quando. E tu sai che dentro a quelle valigie vuote e consumate ci sono ancora sacchetti di plastica, pezzi di spago e nessuna bandiera. Ghiannis Ritsos

Di sfuggita

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  Davvero pensavo che tutte quelle frasi buone per incartare dolcetti - quelle sul volo, hai presente? - avessero migliorato la situazione, in qualche modo. Sbagliavo, accidenti. Sempre quel poco, vedo. Oh, certo, la libertà di infilarsi in nuove gabbie, di riaccendersi in fiammate che diventeranno abitudine - storia conosciuta, no? - e figlie da ritirare all’ora convenuta, incolpevoli tesori di un mestiere fallito, pacchi a cui donare amore traballante.  Un cellulare stipato di messaggi ed emoticons e quel solito passo ciondolante, quello sguardo felicemente disperato, vuoto di emozioni, di te. Soprattutto, davvero pensavo che non avrei visto qualcuno invecchiare così in fretta, così male. Vabbè. Succede.

Sempre noi

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  Un altro anno. Sarebbero novantaquattro, pensa te. E invece manchi da diciassette. Ma tutte le volte che ti cerco, ci sei. Ci sei sempre stato, anche quando non c’eri. E succedeva spesso. E un po’ alla volta, con quel tenero senso di colpa, hai provato a spiegarmi perché tante volte non avevi potuto esserci. E un po’ alla volta ho capito. Che la vita non è una linea retta, che nessun manuale te la insegna. Un cammino accidentato. La tua, la mia. In qualche modo cercavi di scusarti. Non ce n’è mai stato bisogno. Perché ti assomiglio, da sempre. In fondo, cosa c’è di meglio che essere spiriti liberi? Ci siamo detti molte cose, e nei silenzi ce ne siamo detti altre che non avevano bisogno di parole. Sono venuto su così. Bene, male, chissà. Ma fa parte del dono. E alla fine ancora ti cerco. Il dono è quello. Ancora mi rispondi, in qualche modo. Si passa, si va, perché è naturale. Ma in fondo si resta, anche solo in un pensiero. Vuoi ridere? Oggi OldTaroz sono diventat...

Itaca

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…tienila sempre a mente, Itaca. La tua mèta è approdare là. Ma non avere fretta, nel viaggio. Meglio che duri molti anni, e che attracchi all’isola ormai vecchio ricco di ciò che hai guadagnato lungo la via, senza aspettarti da Itaca ricchezze. Itaca ti ha donato il bel viaggio. Non saresti partito senza di lei. Nulla ha più da darti. E se la trovi povera, Itaca non ti ha illuso. Sei diventato abbastanza vecchio ed abbastanza saggio per capire cosa vuol dire Itaca. Costantino Kafavis  

Novantacinque

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  Ma poi dicevi sempre che in realtà non eri così sicura che fosse stato il 29 luglio. Che forse avevano tardato a registrare la nascita, e ti rimaneva il sospsetto di essere venuta al mondo il giorno prima. Però alla fine gli auguri ti arrivavano sempre in questa data. L’abbiamo fatta nostra. Gli auguri, certo. Quanto a feste, poca roba. Non ti piaceva far festa. Soprattutto negli ultimi anni. Quando anche uscire di casa ti metteva a disagio, ti soffocava. Così, passavi il tempo su quella sedia in cucina, la tv ronzante e inascoltata, il divano in sala ancora avvolto nel cellophane da vent’anni, rigorosamente inutilizzabile. Non è stato facile, lo so. Salire quei quattro muri a mani nude, sentire il vento, uscire fuori. Non ci sei riuscita. Allora ci ho provato io. Non per ribellione. Per non sprecare il Dono. Tu l’avevi avuto, il Dono, e l’avevi sprecato per consuetudine e non per scelta. Non dimentico la fatica di essere sola, di essere madre, di stare fuori posto in que...

Commiato

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  (da un figlio venuto su strano) Prima ti hanno tolto l’orologio. Ma ormai non ti importava del tempo. Poi ti hanno spento il cellulare. Non dovevi più chiamare nessuno. Poi hanno abbassato le tapparelle. Dicevano che entrava troppa luce, che era giugno, era troppo caldo, ma chissà forse avevi ancora voglia di immaginare il sole fuori. Era tutto lì, dentro al cassetto. Pensavo che poco alla volta ti avrei rimesso l’orologio ti avrei riacceso il cellulare ti avrei riportato al mare. Non avevo fatto i calcoli con la stanchezza: Che ormai avevi visto tutto e niente avrebbe più avuto lo stesso profumo lo stesso sapore i colori che volevi. Ricordo che ho pensato è così che ci si spegne, cazzo. In silenzio, con le giornate che si allungano e non capisci più che ora è e nessuno ti fa una chiamata e tutto diventa interminabile. E ricordo che ho capito che andarsene è una faccenda semplice e complicata. O forse non l’ho capito in quei momenti ma mi tor...

Qualcosa resta

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Dopo tanti bombardamenti a tappeto rimase intatto soltanto un muro della grande chiesa con l’alta finestra; intatta anche la bella vetrata con colori viola, arancioni, azzurri, rossi e immagini di fiori, uccelli e santi. Perciò confido ancora nella poesia. Ghiannis Ritsos Nella foto: casa natale di Ghiannis Ritsos a Monemvasìa, 2025  

Poesia, 16 settembre 1961

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  Come mi sentivo terribilmente triste pensando a mia madre addormentata nel letto che morirà un giorno sebbene dica lei stessa “non c’è da preoccuparsi della morte da questa vita ci avviamo verso un’altra” Come mi sentivo triste lo stesso – non aver vino per dimenticare i miei denti guasti è già brutto ma che si guasti il mio corpo intero e il corpo di mia madre si guasti verso la morte, è così pazzescamente triste. Sono uscito nell’alba pura: ma perché dovrei essere felice di un’alba che albeggia su un altro sentore di guerra, e perché dovrei essere triste : non è fresca e pura almeno l’aria? Ho guardato i fiori della siepe: uno era caduto, un altro era appena sbocciato. Nessuno di loro era triste o felice. D’improvviso ho capito che tutto va e viene compresa la tristezza: anche questa se ne andrà. Triste oggi felice domani. Sobrio oggi, ubriaco perso domani: perché angosciarsi tanto? Come me ciascuno ha i suoi difetti, perché dovrei disprezzarmi? Tut...

Cose semplici

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La guerra è quella sporca faccenda che mai risolve che ammazza donne e uomini nelle case nelle chiese bambini nelle scuole negli ospedali che spegne nel sangue di ferite profonde nel corpo di voragini nell’anima di dolore e rancore di fame e sete Dicono sia utile soltanto a certi mercanti di morte esperti di criptovalute giocatori in Borsa che da qualche parte hanno costruito comodi rifugi in cui chiudersi come topi ammalati da cui uscire a giochi fatti per respirare un’aria fetida e camminare nel fango di un nuovo medioevo Pare tutto così semplice lo capirebbero i bambini anzi lo capiscono solo loro perché hanno ancora la forza di inseguire un futuro di guardare il cielo e quell’arcobaleno di colori su cui ogni notte dopo il suono delle sirene qualcuno passa una mano di inchiostro nero per poi tornare a chiudersi in qualche stanza senza finestre a contare medaglie a sgranare con le dita briciole di potere a soffocare in un delirio di inutile immo...

Eroi di un mondo nuovo

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  Noi avevamo visto Savoldi volare più in alto di tutti. Si andava al Comunale pensando, anche nei momenti più difficili per il Bologna, che lui qualcosa avrebbe inventato. E quasi sempre succedeva. Ed era successo anche nelle uniche due occasioni in cui il Bologna era riuscito a scrivere il proprio nome nell’albo d’oro della Coppa Italia. Nel 1970, in quell’anomalo gironcino finale, Beppegol aveva infilato due volte il pallone nella rete del Torino, e la truppa di Mondino Fabbri aveva alzato la Coppa. Nel 1974, all’Olimpico (quando si dice il destino), era stato ancora lui a raddrizzare una partita senza quasi più speranza, con quel rigore al minuto 90 che portò i rossoblù ai supplementari e poi ai rigori. Insomma, che cambiò il destino. Ma lì c’era stato anche lo zampino di Giacomino, il Capitano di lungo corso. Quelle immagini di Arcoleo che atterra Bulgarelli in area, della disperazione dei rosanero, dell’inflessibile decisione di Gonella, della freddezza di Beppegol e poi di u...

Strani medici

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  Che ti curano ferite ti riparano il cuore ma solo per gioco per passatempo per noia di uomini distratti di figlie da crescere di vita da risolvere di vita risolta mai. E poi. Che riaprono le ferite le rendono più profonde di prima di sempre pronte a riaprirsi in certi giorni dimenticati frettolosamente dimenticati

Pausa di riflessione

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Ho saltato fossi. Mio nonno consigliava di aggiungere “per la lunga”. Ho giocato in cortile, quando i cortili erano pieni di voci. Ho guardato mio padre curare una vacca. Per premio, dopo, abbiamo visitato anche due porcilaie. Ho letto Topolino nuovo di zecca per dodici anni in fila. Ogni maledetta domenica. Ho cavalcato la Parilla del nonno. Ho visto il primo mare e si chiamava Adriatico. Ho visto tutti gli altri, qui intorno. E anche diversi più in là. E anche un paio di oceani, ora che ci penso. Ho un’isola greca in cui nascondermi, ma se dico dov’è arriva il mondo. Zitto, allora. Ho visto un piccolo passo per l’uomo, grande per l’umanità. Dentro una tv in bianco e nero, seduto scomodo. Ho messo Barbara Ann e Vivrò nel mangiadischi della Giulietta Spider. Rossa, come il cuore di mio padre. Ho vinto la battaglia tra Grattacielo e Findomus, perdite contenute. Ho aspettato che mio padre tornasse. Ho sofferto per mia madre che aspettava. Ho imparato a leggere a tre anni. Ho imparato a c...

Ottanta anni

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  Ma alla fine, il problema non sta nelle parole. Essere "sobri" in un mondo di svacco e fake news, di arroganti e prepotenti. È che quelli che potevano raccontarci l'orrore della guerra e il dono della libertà se ne sono andati, inghiottiti dal tempo. E dopo ottant'anni c'è tanta gente che si annoia a parlare di libertà, che si stanca a sognare un mondo in pace. Quella giovinezza perduta ci dice che c'è una gioventù nuova, che dovremmo rispettare. Ma siamo troppo impegnati a farci selfie anche nelle camere ardenti. Non so se oggi sarò sobrio. Mi accontenterei di essere vivo.  

"All'ippodromo ci sono le corse domani"

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  Anna, non avevi ancora quindici anni. Ma da quel cortile sbilenco in viale Carducci ti incamminasti lungo strada Maggiore, e man mano che la piazza si avvicinava crescevano le voci, le grida, i cori. Erano sorrisi, abbracci. Sconosciuti come vecchi amici. Tutti quei ragazzi col fazzoletto al collo. Rosso. E gli americani che erano venuti giù da San Luca, che Laurenzo era uscito di casa alle Orfanelle, per salutarli. Ma ancora non lo conoscevi, Laurenzo. Né il suo amico Giuliano, che pochi anni dopo ti promise quella faccenda chiamata amore. E gli credesti. Ma intanto, quella piazza. Tavolette di cioccolata, “cicche” americane, prime sigarette. Una serata tra amici che mai più avresti rivisto. Mi hai messo al mondo quindici anni dopo, sembra incredibile a pensarci. Ma era già un’altra vita, un’altra storia. La “rinascita” era un frullatore di anime. Vivevi all’ombra di un arrogante “grattacielo”, che a vederlo oggi fa sorridere anche solo pensare che lo chiamavano così....