Eroi di un mondo nuovo

 



Noi avevamo visto Savoldi volare più in alto di tutti. Si andava al Comunale pensando, anche nei momenti più difficili per il Bologna, che lui qualcosa avrebbe inventato. E quasi sempre succedeva. Ed era successo anche nelle uniche due occasioni in cui il Bologna era riuscito a scrivere il proprio nome nell’albo d’oro della Coppa Italia. Nel 1970, in quell’anomalo gironcino finale, Beppegol aveva infilato due volte il pallone nella rete del Torino, e la truppa di Mondino Fabbri aveva alzato la Coppa. Nel 1974, all’Olimpico (quando si dice il destino), era stato ancora lui a raddrizzare una partita senza quasi più speranza, con quel rigore al minuto 90 che portò i rossoblù ai supplementari e poi ai rigori. Insomma, che cambiò il destino. Ma lì c’era stato anche lo zampino di Giacomino, il Capitano di lungo corso. Quelle immagini di Arcoleo che atterra Bulgarelli in area, della disperazione dei rosanero, dell’inflessibile decisione di Gonella, della freddezza di Beppegol e poi di un giovanissimo Eraldo Pecci, designato a battere il penalty decisivo, ci erano rimaste negli occhi. In bianco e nero.

Il nostro mondo è cambiato il 14 maggio. Sempre in quello stadio. Quello in cui nel 1964 i ragazzi di Bernardini si presero il settimo scudetto, e dieci anni dopo quelli di Pesaola alzarono la Coppa Italia. Mezzo secolo dopo, la bacchetta magica è passata nelle mani di un ex ragazzo di Sicilia, nato per necessità familiari in Germania, e lui l’ha usata mescolando arte e mestiere. Per questo ci piace metterlo in prima fila, anche se i protagonisti di questo trionfo, atteso così a lungo, sono tanti: Joey Saputo, il presidente che ha costruito con pazienza e razionalità, proprio come aveva fatto Dall’Ara nel decennio prima dell’ultimo scudetto; Giovanni Sartori, il miglior uomo-mercato del calcio italiano; Riccardo Orsolini, bandiera in tempo di bandiere ammainate; Lorenzo De Silvestri, “sindaco” da campo; Remo Freuler, colonna del centrocampo più tosto della Serie A; Dan Ndoye, arrivato finalmente a quei livelli in cui ci si può permettere di decidere le sorti di una finale. La società, dal primo all’ultimo uomo. La squadra, idem. E poi, il popolo rossoblù: quei trentacinquemila scesi fino a Roma, un esodo senza precedenti, e tutti gli altri che li hanno seguiti col cuore, riempiendo la piazza a fine partita.

Ma soprattutto lui. Vincenzo Italiano, l’allenatore che era arrivato con un fardello pesante sulle spalle, e – non dimentichiamolo – tra sussurri e mugugni. Doveva far dimenticare un passato recente e brillantissimo, e partiva con una specie di handicap, tre finali perse in due annate, e con l’eco delle ultime contestazioni a Firenze. Che poi, le finali si possono anche perdere, ma arrivarci non è da tutti. Però, ecco, in un colpo solo il timoniere ha sbancato: la Coppa Italia, e poi a cascata il Premio Bulgarelli, il Nettuno d’Oro. Prima o poi era scritto che avrebbe vinto, ma così è stato bellissimo. Qualunque cosa ci riservi il futuro, non dimentichiamo più questi momenti.

(mtar)


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