Complice


Allora il direttore mi ha chiamato
nel suo ufficio pieno di libri
che chissà se avrà mai letto.
Forse non hai capito, ha detto,
qui non è questione
di buoni o cattivi, la religione
e le linee di confine
sono il nostro meraviglioso alibi.
Apri la mente, amico mio:
qui ci sono interessi
che vanno oltre me e te,
oltre il sangue e le bombe intelligenti,
oltre i droni e i loro attacchi mirati.

Non sai quanti soldi girano,
mi ha detto, e sono quelli
che fanno campare anche te,
la tua famiglia, i tuoi figli. Quindi
vedi di scrivere ogni giorno
quello che ti chiediamo di scrivere,
diffondi ansia, spingi forte
sullo spirito di patria e la bandiera,
vai in tv e dì le cose giuste, e agitati
alza la voce se occorre, che poi
torni anche a casa con un gettone
che può sempre far comodo.

Ecco, cosa avrei dovuto fare?
Ho pensato alle mie bocche da sfamare,
alla scuola dei figli, alla macchina
che tra un po’ andrà cambiata,
ho continuato a scrivere
di guerra ibrida, sconfinamenti,
raccontando il dolore
come fosse una partita di pallone,
incendiando le tifoserie,
facendo credere che ancora
tutto dipende da noi.

Un giorno hanno bussato alla porta,
avevano bisogno dei nostri figli,
mi hanno detto. I miei, quelli
del direttore. Li ho visti partire
e adesso guardo le loro stanze
piene di sogni lasciati a metà.
Questo sono riuscito a fare,
io che non ho più futuro:
ho scelto di cancellarlo
a chi ne aveva uno da costruire,
magari migliore, o chissà.

E adesso, insomma,
vorrei fare qualcosa,
ma non ho più niente da dire,
e anche se mi uscissero le parole
è troppo tardi.

(mt)

 

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