Niente più parole. Niente più voglia
Mi chiedo cosa siano esattamente questi momenti. Come tu
li stia vivendo. Da quando hai chiuso gli occhi e hai deciso di uscire di scena:
basta mangiare, basta bere, e allora ti attaccano le flebo. Tutti i pensieri
che devono averti riempito la testa, da quando qualcuno ha deciso che non
potevi più finire i tuoi giorni a casa tua, tra quei muri, nel giardino a
sentire il calore del sole, quando c’è. Quando strappi una pianta dalle radici,
muore. Anche se per tutta la vita è stata una quercia.
Non ho modo di cambiare le cose. Sai, pare che essere il figlio di tuo marito
conti zero: nella struttura mi hanno detto di chiedere ai responsabili, ma di
massima loro rispondono a chi “ha stipulato il contratto”. Ovviamente, non io:
non lo avrei mai fatto. Nel dolore, mi ha fatto sorridere: sei come un’auto
usata, una vecchia credenza. O una casa da vendere, guarda un po’ che coincidenza.
Quando mio padre stava per andarsene, proprio pochi giorni prima, quando ormai
parlava poco o niente, ci fu un momento in cui mi guardò e sottovoce mi disse:
“Stalle vicino”. Era come chiedere di proteggerti, difenderti da un futuro che,
chissà, forse in qualche modo lui immaginava. Mi è sempre piaciuto questo, del
babbo: sapeva vedere oltre, in qualche modo, e riconosceva una persona vera da
una vuota, e se poi oltre che vuota era cattiva alzava una barriera.
Ho fatto tutto quello che ho potuto, finché ho potuto. Non mi chiamo fuori, mi
ci chiamano, e sono scelte malate di una febbre perfida. L’ultima volta che hai
parlato, hai detto “Sono esausta”.
Non era stanchezza fisica: intendevi di questo vivere, di tutta questa fatica.
Adesso, ad occhi chiusi, ti immagino oltre. Disgustata. E’ il mio stesso
disgusto, credimi. E non era il finale che meritavi.
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