La cucina verde e panna


 

Qui è la solita zuppa. Cose che vanno, cose che affondano. Non è cambiato niente. Navighiamo la vita, come sempre.
Ogni anno che passa, mi chiedo se non avessi ragione tu. Che avevi deciso di sederti una volta per tutte sulla sedia a destra, appena entrati in cucina, e la tua vita era quella. La tv che ronzava davanti, un angolo della tavola su cui appoggiarti, che quasi sembrava ti facesse soggezione allargarti un poco. Ci hai passato la vita, a cercare di non disturbare.
Le Nazionali verdi, negli ultimi anni, le avevi mollate così, da un giorno all’altro. Bene, pensavo. Ma forse anche quelle erano un gancio che ti fissava all’esistere, che tanto per il resto sembrava non interessarti più niente.

Nemmeno uscire di casa per una commissione, nemmeno più il giro fino all’edicola. Aspettavi un uomo che ormai aveva un’altra vita, ma non riusciva a lasciarti lì da sola. Uno strano tipo di amore, che sfida il tempo. Bellissimo, a pensarci. Aspettavi quelle due visite settimanali, come fossi rinchiusa in una casa di quelle dove si va ad invecchiare, e poi a morire. Questa era casa tua, ma non c’era proprio niente di diverso.
Scusa se ogni volta cercavo di uscire prima possibile. Mi sentivo soffocare, ma solo perché immaginavo te soffocare, lì dentro. Tu eri in una dimensione diversa, ma non sono mai riuscito a capirlo. Per questo mi sono incazzato tante volte, mi sembrava che stessi buttando via quella cosa stronza e preziosa che è la vita.

Cerca di capirmi, stiamo parlando di quattordici anni fa, ormai; quando credevo ancora che il destino uno se lo potesse cambiare. Odiavo quella sedia, quella televisione, quei programmi da niente, quella finestra con la tapparella sempre abbassata, quel vento e quel sole che giravano al largo. Continuo a pensarlo, che hai sprecato tanto perché non avevi più benzina. Non ci riuscivo a capire che la solitudine, la paura del vuoto, sono una malattia. Che cresce nel tempo, che non ti avvisa quando arriva, ma poi si sistema nella tua testa e spadroneggia.

Sai, sogno spesso papà. L’altro giorno faceva il teatrante, pensa te, e andava a fare le prove dello spettacolo in autobus. Diceva che era comodo, dall’albergo. Abbiamo parlato di tante cose, anche di te. Delle mie passioni, delle cazzate che ho fatto. Lui era quello di sempre. Ascoltava, non giudicava. Mio padre, insomma.
Tu non ci vieni mai, dentro i sogni. Vabbè, mica dico insieme a lui, che tanto sarà come allora, avrete continuato a fare le vostre vite, ognuno sulla sua strada. Tu, da un certo punto in avanti, senza più correre. Sulla sedia di legno, in quella vecchia cucina verde e panna. Senza più cercare, senza più un attimo di curiosità.

Ho sempre pensato che sia stata una vita sfortunata. Sai, quella storia del collegio da bambina, che ti pesava ancora. Le suore nere, i corridoi scuri del Baraccano, il rumore dei passi nel silenzio. Sentirti una criminale se rubavi una mela. Ho sempre pensato che tu ti sia portata dietro quel vuoto tutta la vita.
Hai vissuto così, prendendo poco e niente. Avevi una testa sveglia, avresti potuto pretendere molto di più, e prendertelo. Ma adesso che mi avvicino a quel sentire, che faccio i salti mortali per tenere accesa la memoria, che vorrei appuntarmi tutto perché ho paura di perdere le mie passioni, le mie radici, e di perdere anche te; ecco, adesso comincio a capire la tua resa. Che forse assomiglia alla mia, anche se io continuo a dibattermi.
Comincio a dare un senso a quell’uscita di scena. Un pranzo accennato, un paio d’ore di riposo che sono quelle che ci vogliono. Quando siamo arrivati, che non rispondevi più al telefono, sembrava davvero che dormissi. Come avessi lasciato un messaggio: tutto è compiuto, adesso posso anche non svegliarmi più.

Non ho nemmeno pensato, lì davanti, che quel senso di vuoto stava già iniziando a farsi largo. Non ci si pensa mai, ci sono sempre mille cose da fare in quei momenti. E altre mille dopo.
Io te lo dico comunque, buon compleanno. Tu ogni tanto passaci, dai miei sogni. Magari, se l’attore è in giro, fate anche due chiacchiere. Ma tanto, avrà già preso l’autobus. Ci sono le prove, chissà quando è in cartellone lo spettacolo.


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