Oggi che compio un anno




Un anno fa. Più o meno a quest’ora, attraversavo corridoi azzurroverdi sdraiato sul mio comodo letto d’ospedale, per l’occasione sradicato dalla stanza 3 di Chirurgia del Sant’Orsola e portato in tour eccezionale, direzione sala operatoria.

Si vive di dettagli. Erano stati tutti gentilissimi, compreso l’infermiere che mi aveva portato fino a un passo dalla sala, in una specie di stanzone che mi ricordava certi ambienti pregara quando mi sentivo un piccolo re del mezzofondo. Con lui parlavamo del Bologna, come mi succede spesso quando qualcuno annusa tra i discorsi qualcosa del mio mestiere. Scivolò male su quelle tre parole gridate ai colleghi, per avvisare del nostro arrivo, e so che non lo fece per cattiveria, Pura e semplice abitudine. “Tumore al pancreas!”. Passato il brivido, alzai timidamente il dito per specificare, chissà a beneficio di chi. “Sì, ma…. benigno…”


Insulinoma, si chiama il piccolo bastardo. Non è nel pancreas, ci sta attaccato e si diverte a squilibrare tutti i valori. Ti spara dentro l’insulina che basterebbe a tre persone, e ti provoca cali glicemici che ti arrivano a tradimento. Magari ti senti che è una  meraviglia, e il livello viaggia a 34 o 35. Basta niente. Un altro piccolo calo e ti ritrovi a sparlare senza senso, come la maggior parte dei politici o come un imbonitore da fiera. Se sei in scooter in tangenziale, come mi capitava e mi ricapita spesso, rischi di prendere la targa a un camion da molto vicino…

In realtà, la pena è durata un anno. Quella degli scarti improvvisi, della memoria smarrita e ritrovata, dei blackout che mi hanno fatto capire che razza di meraviglioso e strano congegno è il nostro organismo. La soluzione è stata molto più veloce. Una settimana, più o meno. Il ricovero, “perché in giro in queste condizioni non ti ci lascio”, parola di primario (nome e cognome Uberto Pagotto, sommo endocrinologo, uno che sa trattare un paziente come un  fratello o un amico); l’operazione, qualche ora nel limbo. Dopo, ma proprio un attimo dopo, quella specie di normalissimo miracolo. Valori nella norma. Subito, e da allora sempre, fin qui. Sparito, il piccolo stronzo. Guarda che casino può combinarti un affare di due centimetri…


E certo, ci sono stati anche i giorni del morale a pezzi. Con un ago piantato nel collo e il cielo grigio fuori dalla vetrata. Il freddo fuori e dentro. E le piccole cose che accelerano la risalita, le frasi e le parole giuste che avviano la rinascita. Quelle che non ti aspetti, anche. E la “camera tre” dei “magnifici tre”, Luigi, Nick e Taroz, che non si erano mai nemmeno incrociati nella vita precedente, e per un pugno di giorni si sono fatti compagnia come fratelli, combattenti duri e puri contro qualunque avversità.


Un  anno. Non è poco, poter guardare al futuro. E vorrei sapere di Nick, che non mi risponde più al telefono. E mi torna sempre in mente Luigi, che aveva fatto tutta la vita il casaro mettendoci l’anima, con le sue disquisizioni sul grana che ti affibbiano dalla mensa dell’ospedale. Mi vengono in mente giornate vuote, paure che credi di poter tenere a mente per sempre e hai già dimenticato il giorno dopo. Mi vengono in mente tutti i giorni messi in fila dopo, con la voglia di bruciare. Un’onda travolgente che mi ha scombinato meravigliosamente i pensieri. E tutte le volte che da allora ho detto “non mi va più bene”, “non mi deludere”, “non gettare il tuo tempo”. A me stesso, a chi ho avuto intorno. E la voglia di sapori dolci, di respiri frenetici, di sudore e calore, di essere me stesso fino in fondo. Perché il destino un po’ te lo costruisci, almeno se trovi il tempo di crederci.

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