Un gran bel film


“Se ti dico che sono nato negli anni Sessanta, precisamente nel millenovecentosessanta?”.

Si ascoltò, mentre pronunciava quelle parole. Il solito timbro profondo, quello che dovrebbe trasmettere un senso di distratta saggezza. Di solito, funzionava. Lo faceva sembrare piuttosto orgoglioso di quell’età, del suo passato e di tutto quello che aveva visto, conquistato, inseguito e rubato lungo il cammino. Sogni svaniti, amori usati e ribaltati, certezze andate a puttane e tutto quanto. Gran bel viaggio, accidenti.
Lui lo sapeva che non era andata esattamente così. E quell’orgoglio era un bluff, gli serviva per giustificare tutte quelle strade sbagliate. La voce, poi. Da un po’ di tempo gli suonava più incerta. Il roccioso ragazzo dei favolosi Sixties. Balle. Il tempo gli correva via sempre più veloce, ecco come stavano le cose. E quanto avrebbe dato, accidenti, per essere alla pari, vent’anni di meno sulla schiena e chissenefrega di tutta quella esperienza, buona per collezionare fallimenti.
“Ecco perché le foto di quando correvo sono tutte in bianco e nero…”
Questa la buttava fuori quasi sempre, gli sembrava avesse l’effetto giusto. Doveva solo stare attento a non ripetersi con gente che l’aveva già sentita. Come quei vecchi attori d’avanspettacolo che hanno conosciuto tempi migliori, e calcano palchi squinternati di periferia ripetendo le solite battute svaporate negli anni, fingendo sempre di stupirsi come la prima volta. E’ una tattica, aveva sempre pensato. Aiuta a sentirsi vivi.

“Adesso forse sarebbe il caso di andare a ripararsi, non credi?”
Aveva ragione lei. Ma non le interessava di averne. Si assomigliavano, in questo. Avevano acceso il canale dei ricordi e non avevano fatto troppo caso alla pioggia, che si era fatta insistente.
“A me piace stare qui. Sai, il profumo dell’erba bagnata. L’odore di elettricità prima di un temporale. Te l’ho mai detto che in fondo sono irlandese? Della costa atlantica, a occhio e croce. Uscivo con il mio peschereccio verso il mare del Nord, andavo a contendermi quel po’ di acque pescose con gli islandesi, e poi a sputtanarmi tutto ad Annascaul, nel pub di Tom Crean, leggenda pura, grande esploratore e perfetto mescitore di birra scura”.
“Mi sa che ci hai dato dentro, allora. Anche coi sogni…”
“Giuro che è tutto vero, per la barba del rosmarino come direbbe Boris Vian. Per questo non giro mai con l’ombrello. Li odio, gli ombrelli. Nascondono il cielo alla vista”.
Lei sorrise. Si notava appena, sotto quel cappuccio. Si intuiva, però. A lui bastava anche intuirlo, un sorriso. Purché fosse sincero, e quello certamente lo era. Gli bastava immaginarlo. Ed era in quella fase in cui c’è bisogno di sorrisi. Capita sempre, prima o poi.
“A cosa stai pensando?”, gli chiese.
“Prima di tutto, che un acquazzone passa sempre, in un modo o nell’altro… Poi, non so. Mi chiedo perché mi sia venuto in mente il Bologna e la Serie B. Ne avevo altri, di ricordi legati al 1982. Per esempio, che quello è stato l’anno in cui si è spenta la luce. “The thrill is gone”, hai presente? Ecco, se avevo un qualche talento, nella corsa, lì l’ho davvero buttato. Ma adesso sto parlando un po’ troppo di me, non credi?”
“Te l’ho detto io di raccontare, no? O ti riesce meglio scriverle, queste cose?”
Gli sembrò che lo sfidasse. Si sentì meno forte. E non gli importava, in qualche modo voleva essere meno forte. Lo voleva da tempo, e mai come ora.
“Ci sono cose che non riesco neppure a scrivere. Storie personali, rapporti con le persone che ho amato, rabbie. I fantasmi dell’infanzia, di una famiglia divisa come poteva esserlo in quegli anni. Senza separazioni ufficiali, solo ognuno per la sua strada ma senza che venisse detto, e un figlio che giocava da solo in terrazza, contando le macchine che passavano in strada, catalogandole per marche, inventandosi tornei a eliminazione e scrivendo tutto su una montagna di quaderni a quadretti. E pensare che oggi sono tutto meno che uno statistico… E’ tutto lì, bloccato nella testa, pensavo che un giorno avrei elaborato tutto quanto e ci avrei scaricato un bel po’ di parole. E invece niente, inchiodato, e chissà… Il mio calvinismo del cazzo, il senso del dovere, delle regole da rispettare. Bella roba, se oggi non si fosse rovesciato il mondo”.
“Ti fa sentire fuori posto, essere così?”
“Sì. Sono sempre stato fuori posto. Anche quando tutto filava liscio. Ma poteva andare peggio, alla fine”.

La pioggia stava calando d’intensità. Dai cespugli, vicino agli orti, si alzava un vapore che sembrava fumo.
“Lo senti adesso? E’ l’odore del temporale in fuga. Dura un attimo, mentre il sole comincia a riaffacciarsi. E’ magico. Il più dolce dei profumi”.
Lei respirò forte quell’aria. Sembrava davvero una buona cosa. Camminava più svelta, adesso. “Devo tornare a casa, mi stanno aspettando. Vorrei che continuassi a raccontarli, quegli anni là. Mi incuriosiscono, dovevano essere pieni di speranza. Tu hai fatto il liceo nel ’77, no?”
“Ehi… sei niente male in matematica. Ho fatto il liceo nel ’77. E beh, anche dopo. Ho preso le botte in Cirenaica, ma solo perché loro erano quattro. Mangiavo nella stessa trattoria di Guccini, perché allora costava poco, non come adesso che ti pelano. Ma mi interessava più ascoltare Jimmy Villotti, pensa te. Ero innamorato della professoressa di inglese e l’ho fatta innamorare, o almeno credevo. Forse l’ho fatta solo divertire, lì mi sembra che non abbia finto. Ero un ragazzo che parlava poco, correva come un indemoniato e leggeva come un uomo. E i miei amici erano una banda di pazzi”.
“Deve essere stato un momento speciale, dovrai raccontarmi anche questo”.
“E’ stato un viaggio colorato. Ma il mondo non l’abbiamo cambiato, se vuoi saperlo. Te ne sarai accorta. Che anzi, è diventato anche peggio di quello che ci faceva schifo. Però mi sono divertito. Vivevo da solo, mi facevo le canne nella pipa perché accidenti se ho mai imparato a rollare… La casa era sempre piena di amici e quando andavano via loro arrivavano le ragazze. Portavo i capelli lunghi, correvo forte e ho amato una donna che correva forte. E il bello è che non parlavamo mai di corsa, nemmeno per un attimo. Mi sentivo pieno di idee. La fase creativa, hai presente? Lì è partito tutto. Ma non è stato poi così semplice, facevamo degli errori e quelli che hanno sbandato di più li ho persi per strada. Amici che non sono più tornati, cose così. Ti racconterò, sì. Ma devi andare ora. Approfitta del sole”.
Lei aveva ripreso a torturare quella ciocca. Il cappuccio non serviva più. Chissà perché, le venne spontaneo battergli un cinque. Lui scoppiò a ridere.
“Brava. Le faccio ancora queste cose, a dispetto degli anni”.
“Sei giovane dentro, insomma…”
La guardò, fingendo un malumore che non provava.
“E’ la seconda volta che mi fai sentire all’angolo. Ti riesce bene”.
“Mi dispiace. Non volevo ferirti…”
“A me non dispiace affatto”.
Sentiva ancora quel profumo di erba bagnata. Mentre lei pedalava via nel tramonto, si sentì in qualche modo più ricco. Non sapeva perché, di sicuro non gli importava saperlo. Aveva solo una gran voglia di chiudere gli occhi e riavvolgere la pellicola.
“Gran bel film”. Non gli uscì altro, in quell’attimo. Si sentì quasi inadeguato. Non pensava né al passato né al presente. Erano passato e presente che si mescolavano, come al solito gli ribaltavano il quieto vivere. “Davvero un gran bel film”.

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