Ricorrenze

 


Quando ero piccolo, mi vantavo con i compagni di scuola delle elementari del fatto che il giorno del mio onomastico fosse un giorno di festa. Insomma, gli facevo capire che moralmente mi dovevano qualcosa: il tempo del gioco, dell’ozio colorato, della scampagnata fuori porta.

Poi l’ho imparato, a chi dovevano quel giorno libero. A chi lo dovevamo, tutti quanti.

Ho imparato che “libero” era esattamente la parola da usare, e che una pausa può significare riflessione, non semplicemente ozio.

Oggi ho tre volte l’età di tanti ragazzi che hanno scelto di rendere migliore il futuro e che poi quel futuro non hanno potuto viverlo.

Non amo la parola guerra, non l’avrei amata neppure allora come non credo l’amassero loro. Non faccio confronti tra quel passato e il presente, ci sono quasi ottant’anni di mezzo ed è come se ci fossero millenni. Quella tragedia del secolo scorso fu chiusa da due lampi nel cielo, dove vennero usate le armi più potenti del momento. Erano due, oggi ce ne sono a migliaia. Davvero, è come un parlare di niente. O di tutto quello che il mondo è sempre stato, però moltiplicato all’ennesima potenza.

Allora preferisco pensare a quei ragazzi che ci credevano, a un mondo migliore. Che si battevano per vivere, non per morire. Avremmo dovuto onorarli con l’esempio, costruendo la pace che cercavano. Avremmo dovuto, ma abbiamo sempre questa maledetta fretta, e mai un po’ di tempo per rileggere la storia.


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