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Visualizzazione dei post da agosto, 2020

Nel vento

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  Devo averne ancora uno in cantina. Il nonno mi portava alla spiaggia grande e io lo liberavo nel cielo. Piccolo io e piccolo anche lui, taglio secco di plastica arancione, un rombo squinternato, una coda di nylon azzurro sbiadita. Poca cosa, ma volava, accidenti se volava, e io davo filo e ancora filo ai sogni, immaginavo di essere lassù a scrutare l’orizzonte, immaginavo che stavolta là in fondo avrei visto arrivare la Giulia di mio padre, e che poi mi avrebbe portato in giro ad ascoltare la musica buttata dentro al mangiadischi rosso. Deve esserci ancora, da qualche parte. Non butto mai niente, lo so, è un’abitudine stupida perché poi tutto scolorisce, e anche gli oggetti fanno la fine delle passioni, e rivederli non è mai un bello spettacolo. Ma giuro, stavolta - avesse perso anche tutto il colore - lo faccio salire altissimo, e quando arrivo alla fine del filo, mollo la presa, lo lascio andare libero, e stavolta immagino di essere là sopra, di vola

Rotola i dadi

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  Se vuoi provarci, fallo fino in fondo. Altrimenti non iniziare. Se vuoi provarci, fallo fino in fondo. Ciò potrebbe significare perdere ragazze, mogli, parenti, lavori e forse la tua mente. Fallo fino in fondo. Potrebbe significare non mangiare per 3 o 4 giorni,  potrebbe significare  gelare in una panchina nel parco,  potrebbe voler dire prigione,  potrebbe voler dire derisione,  scherno, isolamento.  L’isolamento è il regalo.  Tutti gli altri sono  per te una prova della tua resistenza,  di quanto realmente desideri farlo.  E lo farai,  nonostante il rifiuto  e le peggiori avversità. E sarà meglio di qualsiasi altra cosa tu possa immaginare. Se vuoi provarci, fallo fino in fondo, non ci sono altre sensazioni come questa. Sarai solo con gli dei e le notti arderanno tra le fiamme. Fallo. Fallo. Fallo. Fino in fondo. Fino in fondo. Guiderai la vita fino alla risata perfetta. È l’unico buon combattimento che c’è.   Charles Bukowski  

Scavando

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  Tra il mio pollice e l’indice sta comoda la penna, salda come una rivoltella. Sotto la finestra, un suono chiaro e graffiante all’affondare della vanga nel terreno ghiaioso. Mio padre che scava. Guardo di sotto, finché la sua schiena piegata tra le aiuole non si china e si rialza come vent’anni fa, ritmicamente, tra i solchi di patate dove stava scavando. Con lo stivale tozzo accoccolato sulla staffa, il manico contro l’interno del ginocchio sollevato con fermezza, sradicava alte cime e affondava la lama per dissotterrare le patate novelle che noi raccoglievamo amandone tra le mani la fresca durezza. Ah, il mio vecchio adesso potrebbe impugnare una vanga dalle parti di Dio, proprio come faceva il suo vecchio. Mio nonno estraeva più torba in un giorno di qualsiasi altro uomo, su alla palude Toner. Una volta gli portai del latte in una bottiglia turata alla meglio con un pezzo di carta. Si raddrizzò e lo bevve, poi subito riprese a lavorare intaccando e dividendo, mentre con piote

A voce alta

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Quarant’anni che cerchiamo in ogni pietra, in ogni crepa, nelle linee sui muri, nelle macchie sui vetri. Nelle ombre che prima erano corpi, nei silenzi che prima erano vita. Quarant’anni che cerchiamo perché in ogni maledetto buco può rintanarsi una risposta, e le risposte non chiudono le ferite ma aiutano, almeno, a sopravvivere. Quarant’anni che sappiamo quello che ci hanno nascosto, che ci facciamo forza, che contiamo i caduti di una guerra fatta di bugìe, rabbia e dolore, una guerra indegna, una guerra dove il nemico non ha nemmeno il coraggio di guardarti in faccia. Quarant’anni per una verità è sempre troppo tempo, sempre troppo tardi. Scrivetelo adesso, scriviamolo, nero su bianco, chi, come, perché se mai esiste un perché, scrivetelo e non aspettatevi che noi si smetta di gridare, perché solo questo ci è rimasto: gridare, gridare, gridare, per tenere accesa la memoria. Che non ci sarà più pace, e allora ci sia almeno il ricordo, ci