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Visualizzazione dei post da 2017

Camera 3, letto 3

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Un mondo nuovo. Un altro mondo. Quello che succede fuori scivola via, della vita che scorre arrivano soltanto frammenti, e non c’è il tempo per rifletterci. Qui c’è un mondo piccolo, una finestra che guarda sul solito angolo di cortile, e più in là appena pochi metri di portico. Via Albertoni: almeno ti sembra di capire dove ti trovi, ma non è precisa nemmeno quella sensazione. Camera 3, letto 3. Anche la notte passata in Recovery Room eri lì a pochi passi, stesso piano e qualche decina di metri da percorrere, ma ti sembrava di essere chissà dove. Soffitto, finestra, infermiera del turno di notte. I richiami della pompa da infusione, uno strano senso di quiete. Poi quella che chiamano degenza, un viaggio minimo fatto di minime conquiste, che altri interessi non ci sono, adesso. “Sei andato di corpo?” è la domanda delle sei del mattino. Il mantra della cacca. Lo chiedono a te e poi a Nicola, che sotto i ferri c’è stato il doppio, e ancora a Luigi. E poi ancora a te, nel gi

Il futuro che indietreggia di fronte a noi

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E mentre sedevo là a riflettere sul vecchio mondo sconosciuto, pensai alla meraviglia di Gatsby la prima volta che individuò la luce verde sul molo di Daisy. Aveva fatto molta strada per arrivare a questo prato azzurro, e il suo sogno gli doveva essere sembrato così vicino da non potergli più sfuggire. Non sapeva che l'aveva già alle spalle, da qualche parte nella vasta oscurità oltre la città, dove i campi bui della repubblica si stendevano nella notte. Gatsby credeva nella luce verde, al futuro sfrenato che anno dopo anno indietreggia di fronte a noi. Ci è sfuggito allora, ma non importa - domani correremo più forte, allungheremo ancora di più le braccia... e una mattina, all'improvviso... Così remiamo, barche controcorrente, sospinti ancora senza sosta nel passato. (Francis Scott Fitzgerald - "Il grande Gatsby")  

Un gran bel film

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“Se ti dico che sono nato negli anni Sessanta, precisamente nel millenovecentosessanta?”. Si ascoltò, mentre pronunciava quelle parole. Il solito timbro profondo, quello che dovrebbe trasmettere un senso di distratta saggezza. Di solito, funzionava. Lo faceva sembrare piuttosto orgoglioso di quell’età, del suo passato e di tutto quello che aveva visto, conquistato, inseguito e rubato lungo il cammino. Sogni svaniti, amori usati e ribaltati, certezze andate a puttane e tutto quanto. Gran bel viaggio, accidenti. Lui lo sapeva che non era andata esattamente così. E quell’orgoglio era un bluff, gli serviva per giustificare tutte quelle strade sbagliate. La voce, poi. Da un po’ di tempo gli suonava più incerta. Il roccioso ragazzo dei favolosi Sixties. Balle. Il tempo gli correva via sempre più veloce, ecco come stavano le cose. E quanto avrebbe dato, accidenti, per essere alla pari, vent’anni di meno sulla schiena e chissenefrega di tutta quella esperienza, buona per collezio

Vent'anni dopo (ma Dumas non c'entra)

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Facevo il collaboratore a Stadio. Con un contratto di quei tempi là, oggi inimmaginabile: fisso mensile, il basket quotidiano e giravo anche l’Emilia scrivendo articoli da inviato. Una collaborazione speciale, di quelle che non esistono più; ma del resto avevo lasciato lì un posto da segretario di redazione, quando si era trattato di spostarsi a Roma. E qui, sfaterei una leggenda metropolitana che ancora mi tiro dietro. Dice: “Eh, ma tu non volevi andarci a Roma…” Sbagliato. Io feci l’azzardo, mi proposi per la redazione. Ci sarei andato eccome. Negoziammo, mi offrirono questa soluzione e gli lasciai in cambio un lavoro sicuro da impiegato, seppur a stretto contatto con la redazione, per fare quello che avrei sempre voluto fare e che già in parte facevo. Ma questa è un’altra storia. Insomma, un giorno di quattro anni dopo, è il 1998, mi telefona Marco Montanari , che io conoscevo da “graduato” del Guerino. Mi racconta di questa iniziativa editoriale chiamata "Calcio 2000&q

Lì, dove sono nato

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E un giorno mi mandarono al piano di sopra. A Stadio. Dove c’era Patrizio Zenobi , a coordinare tutto. Dove c’era Giorgio Comaschi , che una sera mi disse “Faccio “Chi ha visto Biancaneve” al Dehon, mi serve uno che coordini le luci dello spettacolo. Vieni tu?” , ma io pensavo soprattutto a   correre a quei tempi. Eppure è lì che iniziai a trovare una strada. Con le serate in tipografia, col proto e le pagine da comporre sui banconi, e i tagli da fare col cutter. Con i primi pezzetti siglati sul podismo, che scrivevo per Raffaele Zanni , che un giorno mi definì “una bella promessa dell’atletica bolognese ed emiliana” in un articolo sulla Casaglia-San Luca, e così era, peccato non aver insistito anche solo per dargli ragione. Con l’offerta di Vittorio Piccioli , qualche anno dopo, che mi aprì le porte della segreteria di redazione. Che fu la prima, nel ’94, ad essere smantellata. Avevo un posto già riservato a Roma, ma mi sentivo maturo per fare quello strano salto e restai, per

La quarta dimensione

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Quando sei bambino impari che ci sono tre dimensioni: altezza, larghezza e profondità. Come in una scatola da scarpe. Più tardi capisci che c’è una quarta dimensione. Il tempo. (Paterson, Jim Jarmush)

Il mare dentro la stanza

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Che di questo hai bisogno. Uno sguardo da perdere all’orizzonte, fin dove può arrivare, cercando altre terre anche se non le vedi. Perché ogni mondo ha le sue pareti, ma è bello pensarle lontane e infinite. In mezzo, spazio per mille storie da vivere. « …il mare a Trieste è un lato della stanza, ti alzi al mattino e sai dov'è, stai dove stai e sai che c'è. (…) A Trieste si fa il bagno in centro città (…) e, comunque, in qualsiasi punto del lungomare ti trovi, puoi accostare, scendere, spogliarti in strada (…) fare dieci passi e toccare l'acqua". (Mauro Covacich)

Un tempo nuovo

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Ma tu tienila vicino al cuore questa faccia che si ruga Sembra non aver pudore questo tempo che la fruga Adesso sono stanco e non mi va di camminare; bello sul tuo grembo fermarsi a riposare… ----- C’è un tempo nuovo che avanza, raccogli la tua vita che sto venendo a prenderti, fa conto sia una gita, che ce ne andiamo lontano in braccio al futuro, come spauriti profughi che saltano il muro. (Piero Marras)

Riprendersi la vita

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L’essere umano vive in città ma mangia senza fame e beve senza sete, si stanca senza che il corpo fatichi, rincorre il proprio tempo senza raggiungerlo mai. È un essere imprigionato in una prigione senza confini. Alcuni esseri umani però, a volte, hanno bisogno di riprendersi le proprie vite, di ritrovare una strada maestra. Non tutti ci provano e pochi ci riescono Walter Bonatti, Ayers Rock, Australia, 1969