Quindici minuti, tre anni fa



Qui è dove sono morto una volta. Giusto tre anni fa. Via Remorsella a zigzag, in bicicletta fino all’angolo con San Petronio Vecchio. Mio figlio che gridava pà, sembri uno che sta imparando ad andarci oggi. Invece era altro: cervello scollegato, e il resto del corpo che andava per i cazzi suoi.

Proprio lì, dove c’è la rete arancione dei lavori, cominciai a inquadrare l’ambulanza, mentre iniziavo a tornare dalla parte della vita. Erano passati circa quindici minuti, e io non li ho mai più ritrovati. Rimossi, cancellati.
Nella notte del Ps, prima controllarono la testa, che in verità non è mai stata completamente in quadro, ma per loro andava bene. Poi frugarono, fino a trovare il corto circuito nel sistema endocrino. Da lì, un anno di montagne russe: la dieta apparentemente risolutiva, la guarigione annunciata troppo in fretta, le ricadute nell’autunno successivo, nessuna così pesante come quella di via San Petronio Vecchio, niente pezzi di vita dimenticati, ma sensi di vuoto, cambi di umore, glicemia sotto il livello di guardia, minima 70, e io giravo normalmente a 35 o 36, quando era grassa si toccava quota 52. E poi gli spuntini obbligati ad ogni ora del giorno. Come camminare sul filo, acrobata del tempo perso.
E infine le analisi dettagliate, la scoperta di quel mostriciattolo che dall’alto dei suoi due fottuti centimetri aveva messo tutto a soqquadro. Insulinoma. Due settimane per riassestare il meccanismo, tolto quello tutto come prima.

Qui è dove sono morto una volta. Vorrei dire che mi è bastato, che non intendo ricaderci, ma di questi tempi il mondo è pieno di immortali. Gente che si sente così sicura di lasciare il segno per sempre da inventarsi guerre per uno sputo di terra, paura di cosiddetti nemici vestiti di stracci che arrivano stremati per portar via il niente di cui amiamo circondarci, pupazzi di gomma che si fingono uomini, dirigenti illuminati ma da sbiadite luci al neon, gente che ama a senso unico amando sé stessa. E gare, sì. Tutti i tipi di gare. Controvento, a piedi scalzi sul fuoco, all’indietro, sulle mani, nudi tra i ghiacciai, ululanti nel silenzio. Noi gareggiamo con chiunque, perché abbiamo paura di restare soli con noi stessi. Non sapremmo cosa dirci.

Vorrei dire che non gliela concederò, un’altra chance, ma so che tanto dovrò arrendermi. Non mi sono guadagnato l’immortalità. Solo un bisogno devastante di vivere, di correre, di bruciare. Una fame di vita che nemmeno i cani randagi. Solo questa sensazione del tempo che corre, che fugge, che non tornerà. Ogni istante, ogni emozione, ogni goccia di pioggia, ogni maledetto e benedetto raggio di sole. Ogni mano da stringere, ogni sorriso, ogni incertezza.

Voglia di non lasciare le frasi a metà. Di non lasciarmi alle spalle rimpianti. Come dire che a qualcosa serve, morire anche soltanto un quarto d’ora.



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